Dante d’avanguardia

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Analizzati i rapporti tra il Poeta e le arti visive del suo tempo in un importante saggio di Laura Pasquini

Se la Commedia è il miele, da quali fiori Dante ha raccolto il nettare?

di Francesco Carbone

 

Dante in pittura era di casa.

(Osip Mandel’stam

Conversazioni su Dante

Il melangolo 1994)

 

 

L’esercizio di descrivere con le parole opere di altre arti si chiama ecfrasi (ekphrasis). Si pensi al muretto giallo della veduta di Delft di Vermeer, «il quadro più bello del mondo» così importante in Proust, alla sonata a Kreutzer di Beethoven nel racconto di Tolstoj, o alla musica di Wagner nel Tristano di Thomas Mann: gli esempi potrebbero essere moltissimi. Fin qui siamo nella descrizione di capolavori reali; ma possiamo leggere anche stupende descrizioni di opere che non esistono: la più celebre è quella, nel XVIII libro dell’Iliade, dello scudo di Achille, sul quale Efesto «modellò la terra, il cielo e il mare, l’implacabile sole e la luna piena, e tutte quante le costellazioni che incoronano il cielo». Sempre in Proust, la petite phrase della sonata per violino e pianoforte di Vinteuil – il segno magico dell’amore tra Swann e Odette – è un’invenzione, come il personaggio dell’umbratile musicista. Della sonata Proust scrive che manifestava «un ordine di creature sovrannaturali, da noi mai vedute, e che tuttavia riconosciamo, estatici, quando qualche esploratore dell’invisibile riesce a catturarne una, conducendola, dal mondo divino dov’egli ha accesso, a brillare per un istante sul nostro».

 

Questo contatto, attraverso un’opera d’arte, col divino nella Commedia, Dante lo mostra nella cornice del Purgatorio dove espiano i superbi (canti X-XII): lì contempla bassorilievi di stupefacente fattura che raffigurano esempi di sublime umiltà. Nel «marmo candido e addorno» (Purg. X 31), la Vergine che accoglie l’annuncio dall’arcangelo «non sembiava imagine che tace» (Purg. X, 39). Inizia una sequenza di sculture in cui persino il fumo dell’incenso «li occhi e ‘l naso / e al sì e al no discordi fensi» (Purg. X, 62-63), dove «Morti li morti e i vivi parean vivi: / non vide mei di me chi vide il vero, / quant’io calcai, fin che chinato givi.» (Purg. XII, 67-69). Di questo è capace Dio, scultore inarrivabile.

Come per la frase musicale di Proust, Dante ci dice che sta descrivendo l’indescrivibile, che le sue parole non sono che un’ombra rispetto alla perfezione di un’opera di Dio. Indicibile è l’adesione al vero di quei manufatti, segni di una perizia, diremo da impertinenti, da far sembrare grezzo il virtuosismo, oltre tre secoli dopo, di Bernini capace di cogliere l’attimo della metamorfosi di Dafne in alloro. Il realismo – questo è il dato essenziale su cui Laura Pasquini (Pigliare occhi, per aver la mente) torna con cura – coincide dunque per Dante con la bellezza: o almeno con la bellezza come manifestazione sensibile, terrena, della creazione divina.

Per il poema che Leopardi nello Zibaldone aveva trovato tutto suggeritore di immagini, l’autrice ci propone un percorso necessario e sorprendente: un viaggio nel testo e in Italia alla ricerca di sculture, mosaici, affreschi, codici miniati e pale d’altare che possono essere state viste da Dante e che, nel ribollire della sua memoria, possono aver ispirato le sue visioni. Che nulla come una bella figura sia capace di arrivare dagli occhi alla mente lo leggiamo, restando nel mondo di Dante, tra gli altri, in Tommaso d’Aquino: «nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu» (De veritate). Non fu già questa la missione della Beatrice della Vita nova: accendere nel giovane Dante il desiderio della bellezza paradisiaca?

 

Nel frettoloso e impaziente tempo attuale, desideroso più di essere fulminato da un’impressione che coinvolto nei percorsi lenti del pensiero, scopriamo così un’insospettata vicinanza al tempo di Dante: la Commedia è – anche – l’enciclopedia dottissima che ci dà in parole un mondo dove per quasi tutti la religione, il rapporto con Dio, il senso del proprio destino, era molto più espresso dalle immagini che dalle parole.

Lo studio di Pasquini ci offre risposte possibili a una domanda necessaria e avventurosa: se la Commedia è il miele, da quali fiori Dante ha raccolto il nettare? Dove gli occhi di Dante furono «presi»? «Certamente Firenze, Bologna, Verona, Treviso, Ravenna»; probabilmente Venezia (San Marco, la basilica di Santa Maria Assunta al Torcello), che possiamo pensare che Dante abbia visitato soprattutto per la sublime descrizione dell’Arsenale (Inf XXI 7-18), e Assisi, Padova, Roma, Lucca, e chissà quanti altri: di interi anni della vita di Dante sappiamo poco e nulla. Impossibile rispondere con troppa precisione; i modelli, le fonti, restano «intense tanto quanto silenziose, a volte silenziate, certamente superate e tacitate da una poesia sublime che, avendole fatte sue, ne amplificava e ne trasfigurava le forme». Dante pare abbia fatto come farà Picasso: invece di citare, ha rubato, e rifatto come suo.

Il saggio è diviso in tre parti che corrispondono alle tre cantiche della Commedia. Le immagini che accompagnano il viaggio sono bellissime. Possiamo limitarci solo ad alcuni esempi. L’Inferno può aver trovato non poche assonanze nel Giudizio Universale del Battistero di Firenze («nel mio San Giovanni», Inf. XIX 17), dove Satana, blu come quasi tutti i diavoli del Medioevo, è tricefalo come quello che Dante descrive al centro della Giudecca, come appare anche nel mosaico della basilica di Santa Maria Assunta al Torcello e come l’ha dipinto Giotto agli Scrovegni a Padova: «bisogna allora almeno ipotizzare che, come spesso accade nell’iconologia del Medioevo, le immagini possano aver preceduto la codificazione concettuale di un tema».

 

Quello che appare certo, ed essenziale, è che il rapporto tra l’arte che Dante può aver visto e quanto ne farà nel poema è dinamico, si potrebbe azzardare persino conflittuale. Scrive Pasquini che soprattutto il Purgatorio «è la cantica dell’arte praticata, analizzata, descritta e osservata nel suo evolvere e divenire in quella manciata di anni cruciali, in cui tutto cambia e tutto si rinnova nella letteratura come nelle arti […] recuperando quel “vero” da troppo tempo emarginato». Leggendo il Purgatorio, non solo troviamo la consapevolezza di quel «cambiamento epocale», della «rivoluzione naturalistica» che dobbiamo «agli scultori delle cattedrali gotiche francesi e tedesche», a Nicola e Giovanni Pisano e alla pittura di Giotto: Dante immagina, e poeticamente realizza, una capacità di mimesi realistica che punta verso livelli di esattezza e virtuosismo che erano ancora impossibili nel suo tempo.

Per capire la portata di questa svolta, si legga per controcanto il capolavoro di Pavel Florenskij, Le porte regali (1922, ed. italiana Adelphi 1977), che quella rivoluzione respinse alla radice. Fu nel tempo di Dante che si aprì il bivio cruciale tra una concezione dell’arte, quella bizantina e orientale, ritualmente stilizzata, sacrale e trascendente, e l’idea che dovesse invece essere necessario un percorso di progressivo avvicinamento al vero, al mondo così come appare agli uomini. È un’opposizione che, prima che tra due idee dell’arte, è tra due visioni del sacro: avvicinarsi a Dio impone di trascendere radicalmente l’apparenza, e saranno le icone dell’arte orientale; o Dio va visto – francescanamente – in tutta la creazione, e sarà il mondo che inaugura Giotto?

L’arte bizantina, che Dante contemplò nei mosaici di Ravenna e, prima, nella loro variante al Battistero di Firenze, manifesta, scriveva sempre Florenskij, l’esito di un’«ascesi eroica»: «quelle luminose e cangianti dei mosaici erano immagini concise, totalmente allusive, smaterializzate e prive di tutti quegli elementi sensibili che potevano in qualche modo ostacolare l’espressione della trascendenza e della spiritualità». L’anonima ieratica arte orientale cancella l’artista nella realizzazione rituale di una porta regale, di un accesso al divino – mondo oltre il mondo di pura luce, senza ombre, senza tempo – dischiuso solo a condizione che le figure corrispondano a un canone essenziale, ripetuto sempre uguale, dove nulla viene concesso agli «elementi della sensibilità», dove nulla è «sensualizzato». La descrizione di Florenskij non è distante da quanto scrive Pasquini a proposito dell’arte musaica a Ravenna: le figure sono imagines agentes, manifestationes, «che rendono visibili ed espliciti l’ordine e la logica di un pensiero, soprattutto di natura teologica». Questa funzione sacrale e simbolica è evidente, nel Purgatorio, nei canti finali, in cui Dante assiste alla processione allegorica che riassume ritualmente l’intera storia del Cristianesimo; allo stesso tempo però, proprio in quei canti, la descrizione degli alberi, dell’acqua, degli uccelli, della luce, ha un realismo sconvolgente, e ci fa immaginare qualcosa di sensibile che «l’arte contemporanea al poeta non era ancora in grado di rappresentare».

 

Se questa è la portata della svolta dell’arte occidentale tra XIII e XIV secolo, il Dante del Purgatorio, della cantica in cui prevale «una modalità pittorico-poetica» (sempre Laura Pasquini, Iconografie dantesche. Dalla luce del mosaico all’immagine profetica, Longo Editore 2008), è un teorico d’avanguardia che non si limita ad attestare quanto sta accadendo («Credette Cimabue ne la pittura/ tener lo campo, e ora ha Giotto il grido», Purg. XI 94-95), ma con le ecfrasi fantastiche nella balza dei superbi, con la descrizione del prato della valletta dove si raccolgono i principi negligenti (Purg. VII 73-75), e con la descrizione dell’Eden, ci entusiasma al punto da farci diventare anacronistici e impertinenti, desiderosi di una pittura ancora da venire: Stefano da Verona, Gentile da Fabriano, Pisanello, e Botticelli (che fu tra i supremi illustratori della Commedia e l’unico che trovò una forma per l’indescrivibile Paradiso).

 

Nel Paradiso – ascesi nell’indescrivibile – il gioco ancora una volta cambia radicalmente. Il precipizio in cielo con cui comincia la terza cantica ci porta velocissimi in un mondo «che dietro la memoria non può ire» (Par. I 9): spiriti sempre abbaglianti che fanno girandole di fuoco, che salgono e scendono lungo scale di luce, angeli ape che vagano tra i petali della candida rosa nell’Empireo: tutto mira a un Dio puntiforme, abbagliante e inattingibile. La croce, da figura del martirio, si fa simbolo trionfante, come Dante può aver visto nel mosaico nell’abside della Cappella dei Vescovi sempre a Ravenna; il suo volto è il nostro, i cerchi della Trinità sono visibili e allo stesso tempo coincidenti: figure che si possono dire riconoscendole indicibili. Tutto il Paradiso ci dà variazioni di quelli che Curtius ha chiamato i «Topoi dell’”inesprimibile”» (E. R. Curtius, Letteratura europea e Medioevo latino, La Nuova Italia 1999).

Pasquini anche qui ci accompagna e ci appassiona: «nessun paragone con quanto esiste di reale nella natura o nell’arte poteva servire a esprimere il concetto supremo». Ma «umbriferi prefazi» (Par. XXX 78) di quel caleidoscopio di visioni possono essere stati, tra gli altri, i decori di Galla Placidia, per esempio ispirando «anche l’immagine della volta celeste che si adorna di un “fioccar di vapor trionfanti”, ovvero di anime festanti che, seguendo le luci di Cristo e di Maria, come fiocchi di neve “risalgono” dal cielo delle stelle fisse all’Empireo nel canto XXVII del Paradiso (vv. 70-72)».

Così Luisa Pasquini, figlia di uno dei migliori dantisti purtroppo mancato alla vigilia del 700°, ci regala uno dei più preziosi sguardi recenti sul poema.

 

 

Laura Pasquini

Pigliare occhi, per aver la mente

Carocci, Roma 2020

  1. 288, euro 24,00