Dario Fo una vita da giullare

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di Cristina Benussi

 

Un ricordo triestino: Dario Fo nell’aprile 1965 venne al Teatro stabile sloveno dove si stava curando la messa in scena della sua commedia Aveva due pistole con gli occhi bianchi e neri. Erano i giorni in cui nello stesso luogo veniva rappresentata La passione di Škofija Loka, cittadina non lontana da Lubiana dove dal ‘700 ogni anno a Pasqua viene ricordata la passione di Cristo con una processione di figuranti lungo le vie del paese. Mi piace pensare che da Trieste sia partito verso altre “passioni”, quelle di Mistero buffo, forse la sua opera più famosa.

Certo, non era la devozione a spingerlo verso la sensibilità popolare. Il futuro premio Nobel era nato in provincia di Varese, al confine con la Svizzera, a Sangiano, paese di contrabbandieri e pescatori. Ha raccontato in diverse occasioni di essere rimasto affascinato fin da piccolo dai fabulatori che giravano nei paesi vicini, recitando storie di gente comune, improntate al gusto per il paradosso e l’iperbole. Erano gli eredi di una cultura popolare che affondava le sue radici nel medioevo, particolarmente florida nella Padania, dove i Comuni erano più forti e più lontani dai due poteri centrali, il Papato e l’Impero. I giullari iniziavano lo spettacolo con il grido imbonitore, «audi bona zent», per poi lanciarsi in un racconto fortemente empatico nei confronti di un pubblico semplice, assetato di stupore e meraviglia. L’effetto grottesco, che muoveva al riso, era provocato dallo scambio continuo di vero e non vero, di serio e non serio, dalla descrizione delle condizioni dei miseri e, per esempio, dalla loro proiezione in mondi dove l’abbondanza e la giustizia regnano sovrane. La dimensione dell’assurdo, in cui si muove il racconto popolare, attinge infatti dal realismo di una concezione amara degli sconfitti dall’ingiustizia di una società organizzata a vantaggio dei potenti. Assurdo e grottesco producono satira nel creare situazioni che analizzano il “male” con gli spiazzamenti operati dal comico, senza dargli tregua, senza cioè alcuna possibilità di catarsi.

A quest’iniziazione non furono estranei alcuni membri della sua famiglia, il nonno e soprattutto il padre, attore in una compagnia amatoriale. Cresciuto, Dario si iscrive all’Accademia di Belle Arti, dove ha modo di constatare che le poderose chiese romaniche in molti casi sono opera di artigiani ignoti. È qui che comincia ad annotare i contrasti tra una cultura borghese tendenzialmente intellettualistica e pessimistica e quella popolare depositaria, nonostante tutto, di un gioioso istinto vitale. Si mette così ad analizzare la logica del mondo borghese, che conosce dall’interno e che invano spera possa rinunciare ai propri privilegi per farsi disponibile, come un tempo ormai lontano, a una moderna ipotesi rivoluzionaria. Siamo negli anni che precedono il boom economico e la fede nella capacità di autocritica della classe egemone è ancora forte. Dario Fo comincia a fare esperienza di teatro interpretando personaggi famosi per la loro malvagità e presentati invece come vittime, e viceversa: Caino, brutto, goffo e deriso per i suoi handicap, viene così quasi spinto a compiere il fratricidio. Golia diventa invece un gigante bonaccione, mentre Davide si rivela essere un ragazzino piuttosto irascibile. Sono alcuni dei personaggi della lunga galleria dei Poer nano, che resero famoso il loro autore, ormai lanciato sui palcoscenici e in trasmissioni radiofoniche di successo. Fo era diventato il buffone della borghesia, criticata dall’interno delle sue strutture mentali, fustigate dalla ripetizione e amplificazione di situazioni evidentemente paradossali, tanto da poter ribaltare il senso comune: Sani da legare mostra il suo deciso avvicinamento a una sinistra allora impegnata a immaginare ben altri rapporti di potere e capace di produrre innovazione nel campo della cultura. Con Franca Rame, sposata nel 1954, Dario Fo dà vita a spettacoli che, se sanno cogliere gli umori del pubblico, risultano assai poco graditi alla censura, non disposta a tollerare, ad esempio, la dimostrazione della natura reazionaria della gestione dei mezzi di comunicazione di massa. Famoso è rimasto il loro provocatorio abbandono, nel 1962, della trasmissione televisiva Canzonissima, spettacolo nazional-popolare di gusto piccolo-borghese, in cui Fo metteva alla berlina la «libertà di canto» del «popolo del miracolo economico».

E si scatena contro i simboli del potere e la forza della burocrazia, con lazzi da commedia dell’arte, repertori popolari, tic chapliniani, enfatizzando la logica dell’assurdo. Questa non è diversa da quella della macchina burocratica: gli Arcangeli non giocano a flipper tematizza, pirandellianamente, l’ipertrofia dell’identità burocratica al posto di quella vera, per cui il protagonista della pièce scopre di essere stato schedato come cane bracco e di doversi adattare al ruolo, pena l’esclusione dalla pensione. Successivamente il commediografo fa sua la prospettiva brechtiana dello straniamento, puntando su un coinvolgimento più intellettuale che emotivo dello spettatore. Scrive commedie più complesse, che riprendono scene da grande Inquisizione: in Isabella tre caravelle e un cacciaballe (1963) Colombo diventa un tale che vuole fare il furbo per difendersi da un mondo di furbi. In un’ambientazione spagnola che ricorda però l’Italia, la sua astuzia consiste nel giocare coi potenti, che però non fanno fatica a incastrarlo e a ridurlo a un povero diavolo. In Settimo, ruba un po’ meno (1964) Fo non predispone più schermo alcuno, e denuncia apertamente gli scandalosi imbrogli che stanno alla base della nostra società, come dimostra la storia di Enea, una becchina che diventa battona, poi suora, spostandosi dal cimitero al manicomio, dove decide di tornare da dove era venuta, per non essere imbrogliata. Entrano in scena le prime manifestazioni operaie contro la corruzione della classe politica: «italioti siam felici del cervello che teniam … non abbiamo da pensar… se diranno quello ruba, quello truffa gli daremo i nostri voti». Allergico ai benpensanti, sceglie di esibirsi in luoghi alternativi al teatro borghese, come piazze, case del popolo, fabbriche. Nel 1965 mette in scena, La colpa è sempre del diavolo, ambientato nel secolo in cui si sono fondate le basi della società borghese, il medioevo. E usa quel dialetto veneto che diventerà padano-lombardo medievale in Mistero buffo. Si chiede perché Dio che ha tutto stabilito ci condanna a recitare la commedia della vita. Vediamo sfilare eretici condannati e imperiali ipocriti, una ragazza accusata di stregoneria, soccorsa da una vera strega. La Canzone degli imperiali suona come un’accusa verso gli imperialisti americani che hanno appena iniziato l’aggressione in Vietnam, mentre quella dei catari pone in contrapposizione tra loro potere politico e poveri cristi. Protesta politica e farsa dunque si intrecciano: nella Signora è da buttare (1967) è l’America ad essere messa sotto accusa per la guerra portata in Vietnam, il suo razzismo, i suoi assassini (Kennedy), il suo consumismo macabro. Fo finisce in questura per oltraggio a capo di stato straniero. Ma il ’68 avanza grazie anche agli studi di antropologia popolare, di De Martino, Cirese e di tutti quelli che mettono in luce la ricchezza immensa costituita dalla cultura delle classi subalterne, sia essa quella contadina, di antica origine, che quella formatasi attraverso la più recente storia politica del movimento operaio. I settori più attenti del pubblico di Dario Fo e Franca Rame sono studenti della sinistra extraparlamentare, sindacalisti, avanguardie di fabbrica.

E nel 1969 presenta Mistero buffo, prova della ricchezza culturale delle classi subalterne in lotta contro il potere politico fin dal medioevo, in una lingua dal sapore arcaico, palesemente inventata eppure di aderenza piena all’espressività popolare. Una straordinaria affabulazione presenta le origini del processo che ha sottratto al popolo la sua cultura, per stimolarlo a imparare a riconoscerla e a riappropriarsene, rivivendola. Il giullare Fo recita solo, ed ogni scena è presentata da un’introduzione che spiega i riferimenti storici del monologo successivo. Usa spesso il gesto mimico, facendo a meno della parola, considerata insufficiente ad esprimere una realtà di cui si è parlato finora con un linguaggio elusivo e retorico. Il gesto mimico invece risale a tradizioni antichissime, è contemporaneo al passato e al presente, si proietta sul pubblico senza rifrazioni verbali di luci o di atmosfere. E parla al suo pubblico in grammelot, linguaggio teatrale costituito da suoni che imitano il ritmo e l’intonazione dell’idioma reale, ovviamente con intenti parodici. Una delle scene più famose è la rappresentazione del sogno dello Zanni, che spera di poter fare finalmente mangiate pantagrueliche e che deve invece arrendersi a consumare un pasto costituito da una sola mosca. Il teatro giullaresco diventa provocazione nel suo essere una forma di libertà povera ma non rassegnata, dignitosa e non pessimista: i figli del popolo godono il poco che hanno, sesso e polenta, oscenità pantagrueliche, gioiose e senza morbosità. Di qui nasce il discorso di Fo sul metodo: contro la storiografia borghese, in cui la classe al potere racconta dal proprio punto di vista, contro quella revisionista che, pur riconoscendo l’esistenza delle classi, non sottopone a ribaltamento critico posizioni acquisite e date per universali, il giullare opta per mettere in scena la dinamica di uno scontro di classe che sarebbe stato possibile, e che è stato messo a tacere. Da questa prospettiva gramsciana, veniamo a scoprire che esistevano momenti estremamente avanzati di autorganizzazione sociale gestiti secondo i principi di un comunismo primitivo, di ribellione organizzata e liberatoria (catari, patari, ecc). Fo dà vita a un teatro brechtianamente epico, deciso a sublimare, ad esempio, anche la passione disperatamente umana di un Cristo contadino e sfruttato, che rifiuta l’ingiustizia e gli orpelli dorati della religione ipocrita dei ricchi: «È il popolo che crea la storia, ma è il padrone che la racconta» fa dire a un personaggio parafrasando Mao Tse Tung. Il seguito è un testo dal titolo significativo come L’operaio conosce solo trecento parole, il padrone mille, e per questo lui è il padrone, un chiaro atto d’accusa ne confronti della politica culturale del PCI, responsabile del disarmo ideologico della base: «a un povero che chiede l’elemosina dai due soldi per il pane… e tre soldi perché si compri un libro. Gli operai devono diventare gli intellettuali del nostro partito». Rompe col PCI e, costituito il collettivo teatrale La Comune, comincia a mettere in scena una serie di spettacoli sulle tragedie contemporanee: Vorrei morire anche stasera se dovessi pensare che non è servito a niente (1970) parla della resistenza palestinese ed italiana. Morte accidentale di un anarchico smonta e rimonta le varie versioni date dalla polizia della defenestrazione dell’anarchico Pinelli. La risata satirica, anche se la realtà di cui si parla è tragica, serve a o liberare il pubblico dal timor panico del potere, mostrando che quel potere è becero, grossolano, cialtrone, che non bisogna temerlo, ma sghignazzargli addosso. E costruisce uno spettacolo a quadri con uso di cartelli secondo una consolidata tradizione brechtiana. La risata, il divertimento liberatorio Fo l’ha provocato lavorando su due piani: scomponendo gli ingranaggi delle strutture drammatiche tradizionali per rimontarli e rimetterne in moto il funzionamento in direzione opposta, comica: dissolvendo il piedistallo di miti e valori accreditati dalla civiltà, li manda in aria e gioca con pezzi di ideologie ormai privi di senso.

Negli ultimi decenni segue da vicino l’attualità storica: con il Fanfani rapito, che non è un cabaret ma una rappresentazione grottesca del potere e della protervia, vuole dimostrare che Fanfani non è il cattivo e la DC è la sua vittima, ma che tutta la Dc da trent’anni rappresenta il disprezzo della gente, l’arroganza, le malversazioni. Con Il papa e la strega (1989) affronta il dibattito sulla droga e sulla necessità di riforma della legge n.685 del 22 dicembre 1975 in senso maggiormente repressivo. Qui viene alla luce tutto il suo anticlericalismo, mentre, in occasione dei festeggiamenti per i 500 anni della scoperta dell’America, ribadisce il suo dissacrante punto di vista del mondo: Johan Padan a la descoverta de le Americhe racconta la storia di un povero diavolo della provincia bergamasca in fuga dall’Inquisizione. Via da Venezia, attraverso la Spagna giunge fortunosamente nelle terre d’oltreoceano dove viene coinvolto in storie più grandi di lui: il grammelot torna ad essere la lingua con cui l’attore solo sul palco comunica con un pubblico che ormai però è difficile scandalizzare. Fo dunque continua a prestar voce a un’idea di intellettuale organico gramsciano, elemento integrale e costante a servizio di una cultura che dovrebbe assumere il punto di vista dei ceti subalterni. Ma la cultura popolare, come aveva ben capito Pasolini, è morta e difficilmente potrà tornare a essere antitetica a quella del potere, che l’ha ormai assorbita. Certo, la motivazione del premio Nobel è assolutamente condivisibile: «Perché, seguendo la tradizione dei giullari medievali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi» E trovo ingiustificato lo scalpore che quella premiazione aveva destato: non aggiungo altro. La storia della letteratura, infatti, come è stata tramandata dalla tradizione, solo in periodo recente ha incluso pezzi che erano rimasti fuori, perché imbarazzanti: De Sanctis aveva rifiutato di considerare nel canone la copiosa esperienza dialettale, in molti casi satirica nei confronti del potere. Anche il genere popolare moderno, il giallo, ha avuto riabilitazioni recenti. Fo lo sa, tanto da giocare con il capovolgimento dei ruoli in una commedia che gialla non è: i gangster non vengono scoperti, ma scioperano e sospendono l’esercizio della malavita. I benpensanti devono ammettere che a rigor di logica sono in gran parte parassiti della malavita.

Non è ovviamente possibile dar conto della ricchezza di tutta la sua produzione teatrale, musicale, cinematografica, televisiva, né dei tanti riconoscimenti ricevuti. Basti dire che ha continuato la sua battaglia, mettendo in scena nel modo che gli è proprio alcune delle vicende processuali più eclatanti, quella per l’omicidio Calabresi e delle discutibili testimonianze dei pentiti (Marino libero! Marino innocente!), e quelle giudiziarie, politiche, economiche di Berlusconi, l’Anonimo Bicefalo, per il quale è stato querelato da Marcello dell’Utri. Teneva anche appassionate lezioni di teatro. Ultimamente, soprattutto dopo la morte della moglie, aveva ripreso la sua passione per la pittura, organizzando anche mostre. Si tratterà ora di studiare il contributo che ha dato Fo alla storia del teatro italiano, e a quello che ha dato la sua compagna di una vita, senza la quale non sarebbe stato lo stesso. Mi pare una coincidenza significativa che nel giorno della sua morte sia stata annunciata la vittoria del Nobel a un altro giullare, Bob Dylan, con conseguente astruso dibattito sui sensi e i modi della “vera” letteratura. Non fa niente, bene così.