Del paesaggio italiano e di altri disastri

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Costituzione, Art. 9: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio artistico della Nazione”

Ogni opera riverbera sul suo luogo e se ne nutre, è un esempio di quella cultura profondamente italiana, e antica, della bellezza artistica come un tutt’uno con la bellezza del suo paesaggio

di Francesco Carbone

 

 

…lo aver cura di quel poco che resta.

(Raffaello Sanzio, lettera a Leone X, 1519)

 

C’è una pagina, in Sentieri interrotti di Martin Heidegger (La Nuova Italia, 1997), dove si descrive come un tempio greco faccia di un posto deserto un luogo: proprio quel tempio, su un promontorio a picco sul mare, o in una valle silenziosa, è il punto che rivela e compie il paesaggio: un candido e quieto centro di gravità per il cielo, gli alberi, il mare, i quali gli si dispongono attorno come placate rivelazioni divine. Heidegger sta riecheggiando un bel passo dell’Estetica di Hegel, ma adesso non è questo il punto. Il punto potrebbe essere che aver smontato quel tempio e averlo ricostruito in un Museo qualunque, fosse anche il British Museum, è un atto di barbarie che prima o poi dovrebbe essere riparato.

Il punto è che sempre più stiamo perdendo il senso di certe differenze essenziali. Per esempio: il castello di Duino a picco sul mare è certo uno dei nostri luoghi; alla parte opposta della baia di Sistiana c’è – cento volte più grande? – il cemento di Portopiccolo, una micro Montecarlo per parvenu e coatti definitivamente volgari. Guardando la baia dal mare, si potrebbe dire che avremmo davanti l’immagine di una scelta essenziale? (Sempre ammesso che una scelta sia possibile ancora). Da una parte un agglomerato di cubi grigi, che non essendo di alcun luogo potrebbe essere dappertutto; dall’altra il castello giallo e silenzioso che amiamo contemplare dal sentiero di Rilke: guardando, come non pensare che la democrazia ci abbia lasciato possibilità di scelta su tutto tranne che sull’essenziale?

Si spera non occorra essere Hegel, o Heidegger, per riconoscere che il castello si giustifica da sé, che la stessa falesia e il bosco e il cielo sono grati di quella presenza, mentre Portopiccolo è un bancomat, un posto dove «il bosco sacro è ridotto a legname» dove il bello circostante «si trasforma in semplici cose» (G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, 1820). E proprio per questo non c’è partita, nel piccolo come nel grande: già un condominio, se deve scegliere tra un albero e un parcheggio, sacrificherà l’albero (Guido Ceronetti, Cara incertezza, Adelphi 1997), già lì meglio un posto in più che un luogo che non si sa più riconoscere.

Non so se Paolo Rumiz abbia letto Heidegger, ma per certi incontri sull’Appennino, le sue parole sono le stesse: «ho attraversato a volte una soglia invisibile e scoperto luoghi dello spirito: eremi, fonti, santuari, boschi millenari, a volte semplici toponimi» (La leggenda dei monti naviganti, Feltrinelli, 2007): luoghi sopravvissuti al «fascismo, l’assistenzialismo dc, il monopolio berlusconiano, l’arroganza della giovane [ex] sinistra, la grande distribuzione e perfino gli alti prelati». Una marea che cambia nome ma non si ferma.

Il viaggio in Italia era il viaggio di formazione per eccellenza (Attilio Brilli, Il viaggio in Italia. Storia di una grande tradizione culturale, Il Mulino 2006), ma da quando non ce n’è uno che non sia, quando diventa racconto, elegia di lutti inconsolabili? «Ma più frustrante ancora (e più istruttivo) sarebbe un viaggio in Italia…» (Salvatore Settis, Paesaggio costituzione cemento, Einaudi 2019), e già Antonio Cederna sull’Espresso: «Chi oggi intraprendesse il Grand Tour…».

Cresce ogni anno questa biblioteca di dolori, e sarebbe incontenibile la raccolta di tutti i saggi, le memorie, i romanzi, i reportage sull’anestetizzata agonia del Bel Paese: già confrontando di Ceronetti il primo Viaggio in Italia (Einaudi, 2004) col recente Per le strade della Vergine (Adelphi, 2016), e leggendo in controcanto il bel libro di Marco Revelli Non ti riconosco (Einaudi, 2016), troviamo solo referti d’una ilare distruzione crescente. E in fondo neppure occorrerebbe viaggiare: si potrebbe, come Andrea Zanzotto, tenersi nello spazio una volta idilliaco che circondava Pieve di Soligo, e vedere l’avanzarsi delle conurbazioni, coi centri commerciali, le autostrade, le discariche, gli aeroporti, le TAV: passando da «qui non resta che cingersi intorno il paesaggio» (Dietro il paesaggio, 1951) a una «ValPiave / davvero definitivamente / canadese o australiana / o al di là» (Idioma, 1983).

Quando è cominciato quest’italiano arricchirsi e smemorarsi? Si potrebbe scoprire che (lo scriveva già Machiavelli nel suo capolavoro Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio¸1519) che i due termini sono inseparabili, che un buon tempo antico non è mai esistito, che è stata solo la povertà a preservare l’Italia dai crescenti disastri. E sempre è stato tutto detto e scritto: «Per una lettura più sana, cioè più attenta a quanto c’è di guasto e di sporco nell’Italia ottocentesca sotto la sottilissima pellicola degli idealismi risorgimentali (così commoventi e cari anche nella loro maniacale cancellazione della realtà), bisognerebbe fantasticare meglio su una triade di Geni un po’ diversa dalle solite… È questo il nucleo purulento di una grandezza che è anche comune a Manzoni e a Leopardi… Dal lago di pus antropologico-sociale di Belli, allo stillicidio di pus psichico manzoniano… si passa al caso per eccellenza», che ovviamente è Leopardi (Andrea Zanzotto, Fantasie di avvicinamento, Mondadori 1991).

Rispetto a questa realtà antica, di un’Italia senza popolo e dimentica, l’articolo 9 della Costituzione è «il più polemico» (Tomaso Montanari, Le pietre e il popolo, minimum fax 2013), il più contro. E quindi il più tradito.

Per capire meglio, due libri gemelli potrebbero essere oggi Paesaggio costituzione cemento di Salvatore Settis (Einaudi, 2010) e Art. 9 di Tomaso Montanari (Carocci, 2018). Ho letto diversi saggi di Salvatore Settis e tutti i libri di Tomaso Montanari: sono necessari. La visione militante, nel senso più alto, di Montanari per la difesa strenua di quanto promesso dall’articolo 9, la capisci ancora meglio leggendo, bellissimi, La libertà di Bernini (Einaudi 2016) e Il Barocco (Einaudi, 2012). In entrambi non c’è opera che non emerga da una rete di relazioni, senza le quali l’opera diventa illeggibile, e quindi non più bella: lo studio dove Bernini lavorava, nelle 328 pagine di Montanari, è un centro del mondo. Questo senso delle relazioni, questa percezione appunto che ogni opera riverbera sul suo luogo e se ne nutre, è un esempio di quella cultura profondamente italiana, e antica, della bellezza artistica come un tutt’uno con la bellezza del suo paesaggio. È la cultura a cui dobbiamo l’articolo 9 (Tomaso Montanari, Art. 9, Carocci 2018). Ma stiamo distruggendo l’uno e riducendo le opere a icone pop sradicate da ogni senso (Tomaso Montanari, A cosa serve Michelangelo, 2011; Privati del patrimonio, 2015; e, con Vincenzo Trione, Contro le mostre, 2017: tutti per Einaudi).

Montanari e Settis sono due eccelsi e dolenti diagnosti, tra gli altri, di una malattia tanto più grave quanto più incapace persino di percepirsi come tale. Molti direbbero che il termometro più eclatante fu già Pasolini («La realtà lancia su noi uno sguardo di vittoria, intollerabile: il verdetto è che ciò che si è amato ci è tolto per sempre», Scritti corsari, 1975); a me segnò molto Paese senza di Alberto Arbasino (Garzanti, 1980), discorso che continuò in Paesaggio italiano con zombi (Adelphi 1998) e in chissà quanti articoli.

Ma già da Leopardi solo conferme: «è cosa molto osservabile, come l’opinion pubblica, così la vita non ha in Italia non solo sostanza e verità alcuna, che questa non l’ha neppure altrove, ma né anche apparenza, per cui ella possa essere considerata come importante» (Giacomo Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, 1824). Forse in queste righe c’è già il seme di tutto Flaiano, altro diagnosta eccelso del Paese in cui sempre «la situazione è grave ma non è seria» (Taccuini 1954). In ogni caso sono tutte voci di Cassandre, ottima letteratura che non è servita a niente, o quasi (Tomaso Montanari, Cassandra muta, GruppoAbele 2017).

La soluzione politica rispetto a queste lucidità è stata un dispregio crescente del sapere e degli intellettuali: stiamo passando dai «professoroni» con cui Renzi tacciò Rodotà, Settis, Zagrebelsky, Sartori, ecc., a chissà quali varianti della stessa rimozione: «la forza governa il mondo (pur troppo!), e no il sapere: perciò chi lo regge, può e suole essere ignorante» (Vittorio Alfieri, Del principe e delle lettere. 1789).

Temo che la riduzione del patrimonio artistico a merce (Salvatore Settis, Italia S.p.A., Einaudi 2002) si possa al momento ostacolare solo con palliativi, se il resto non cambia, e il resto è immenso: il capitalismo ha da tempo decerebrato la classe operaia e cooptato quello che restava dei suoi rappresentanti; ora l’ultimo nemico è il Sacro: «il bosco sacro» di Hegel, che deve essere disconosciuto per essere ridotto a merce, e che per avere un prezzo non deve avere più alcun valore.

Chi persuaderà il capitalismo che il Sacro è dappertutto, quando ogni sua azione dissacra e desertifica sempre più rapidamente? – Confrontando due terremoti, colpì al cuore sentire il sindaco di Venzone, trent’anni dopo il terremoto del 1976, riconoscere che oggi sarebbe impossibile ricreare quella coralità di forze di popolo, di esperti, di amministratori, che recuperò le novemila pietre del Duomo e con un lavoro ventennale lo ricostruì com’era. Potremmo nutrirci del pensiero che se questo è stato possibile potrebbe pur tornare ad esserlo. Intanto, pare scontato che L’Aquila (terremoto del 2009): un altro segno di quel «deserto che cresce» (Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, 1885), entropia che si può temere non troverà ostacoli se non nella sua stessa autodistruzione.

Nell’Italia S.p.A. che riforma la scuola (legge 107, art. 3) ponendole tra gli obiettivi la valorizzazione del «Made in Italy», e che abbassa la difesa del suo patrimonio paesaggistico e artistico ben al di sotto di ogni standard europeo, cosa sperare, come operare? Come Settis e Montanari, e Rumiz e Revelli e Ceronetti, votandosi a una cocciuta guerra di posizione? Forse è vero che «il tiranno non può che sentire una minaccia nella “lode” per gli alberi in fiore e il profondo luogo di libertà dal quale proviene» (Andrea Zanzotto, Tra passato prossimo e presente remoto, 1999). Potessimo condannarlo almeno a non essere del tutto sordo e cieco. Così «Nulla è sicuro, ma scrivi» (Franco Fortini, Traducendo Brecht, 1963); nulla è sicuro, ma fai.