Diana De Rosa, tutta un’altra storia

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Un altro viaggio della storica nella Trieste proletaria, suburbana, malata, “matta”, che la storia ufficiale di Trieste si dimentica di ricordare

di Gabriella Ziani

 

«I nostri bimbi muoiono e deperiscono in seguito all’insufficiente nutrimento. Noi non possiamo offrire ai nostri figli cibo sufficiente perché non ne abbiamo, perché dalla commissione di approvvigionamento non ne riceviamo e perché di prodotti propri non ne abbiamo in causa che i militari e le siccità tutto ci distrussero. Prezzi di strozzinaggio non siamo in grado di pagare perché ci manca il denaro. Perciò i nostri figli languiscono e deperiscono». è il gennaio del 1918, ultimo anno di guerra, e questo è il drammatico appello che le madri dei bambini che frequentano la scuola slovena di Prosecco-Contovello indirizzano al magistrato civico. Invocano anche per i loro bimbi la refezione scolastica, che a Trieste era stata introdotta per la prima volta – intanto per quaranta scolari, mandati a pranzo in una trattoria di via Cologna 3 – l’11 gennaio del 1897, grazie all’associazione di beneficenza Società degli amici dell’infanzia, arrivata in soccorso della disastrosa situazione infantile segnalata dalle autorità scolastiche: troppi bambini gracili, digiuni al mattino e pure a pranzo, assenti d’inverno perché senza scarpe e vestiti, e nelle altre stagioni perché “sfruttati” per lavori agricoli (i maschi) o domestici (le femmine).

Comincia così una lunga storia prima di semplici osterie e poi di refettori, di uffici comunali e Patronati, di consigli medici e di “dietari”, menù settimanali che attraverso due guerre mondiali e un paio di occupazioni straniere conservano singolare coerenza: in tavola regneranno sempre i fagioli, la proteina più economica. è in questo mondo che va la storica Diana De Rosa, infaticabile e magistrale analista di archivi, con Il fagiolo magico. La refezione scolastica a Trieste 1898-1970, un’altra puntata – con toccanti foto d’epoca tratte da archivi pubblici e privati – del suo viaggio nella Trieste proletaria, suburbana, malata, “matta”, che la storia ufficiale di Trieste si dimentica di ricordare. Ci siamo già immersi in tante sue analisi sulla storia delle scuole, sulle balie del contado (Il baule di Giovanna. Storie di abbandoni e infanticidi, Sellerio, 1995), sul mangiare negli ospedali, in manicomio, a bordo delle navi, nell’Istituto dei poveri e dalle monache di clausura (Pane, brodo e minestre, Comunicarte, 2013), siamo entrati nei libri di spesa e nei diari di due donne triestine al tempo della seconda guerra mondiale (Una fiammata di arance, Comunicarte, 2016 – v. Il Ponte rosso n. 20, dicembre 2016-gennaio 2017), e nel non meno triste mondo dell’infanzia tra ‘800 e ‘900 ai tempi del “dispensario del latte” (Bimbi e scolari, Conservatorio di storia medica e sanitaria Alto Adriatica, 2018). Curatrice anche di carteggi ed epistolari, De Rosa ha un terzo occhio sempre aperto sulle vite minime, che poi sommate le une alle altre nei loro rispettivi contesti diventano, nella sobrietà del racconto basato sui documenti, poderosi capitoli di storia sociale: “un’altra storia” rispetto a quella del gran porto dell’Impero farcito di sontuosi palazzi e crescenti fortune commerciali.

Così qui vediamo la situazione scuola per scuola, le prime osterie ospitanti nome per nome, i refettori installati via via nelle scuole, leggiamo corrispondenze e relazioni dei dirigenti scolastici, dell’Ufficio igiene, del Comune che si fa carico del servizio, dei medici che raccomandano più vitamine, “albumine” e proteine nel piatto degli scolari, per i quali il refettorio diventa anche luogo di socialità ed educazione civica, una salvezza nei casi (frequenti) di famiglie dissestate, numerose e indigenti. In città l’alcolismo era una piaga (uno spaccio di vino ogni 140 abitanti, secondo Elio Apih, Trieste, Laterza, 1988), l’indice di suicidi al picco con oltre 14 per 1000 abitanti all’anno e la mortalità infantile fra uno e cinque anni doppia rispetto a quella degli altri grandi centri europei (42 morti su 1000 a fronte di 24, vedi Flavio Braulin, La questione sanitaria nella Trieste di fine ‘800, Franco Angeli, 2002).

Per avere il piatto di minestra questa massa di infelici bambini doveva “dimostrare” lo stato di povertà – su 23 mila alunni nel 1916 fece domanda la metà delle famiglie – ma anche un buon rendimento scolastico (il cibo andava meritato). Lo spirito assistenziale non prevedeva cautele di ordine psicologico: i poveri sfilavano separati, sotto il fascismo addirittura in fila per uno. Nel 1908 mangiavano a scuola già in mille, «un numero esiguo – scrive tuttavia De Rosa – rispetto ai tanti che ne facevano richiesta in scuole che contavano dagli ottocento agli oltre mille scolari». In quello stesso anno Trieste, che aveva raggiunto i 200 mila abitanti, per immigrazione ma anche per altissimo tasso di natalità, annoverava «54 società di assicurazione, 19 banche, 50 redazioni di giornali, 36 società di navigazione, 8 ospedali, 14 asili e scuole d’infanzia, 26 scuole elementari, 9 scuole medie, 21 scuole professionali, 47 società di beneficenza, assistenza e igiene» (Apih). Nel 1917, anno della nascita dei refettori con allestimento di cucine a scuola, si unirono le forze e la refezione fu estesa nelle scuole di città al 50% della popolazione scolastica e in quelle del suburbio e territorio al 52,8%. Possibilità di mangiare anche per i non indigenti, a fronte di un ponderato contributo economico. I menù variano a seconda dei bilanci, ma si resta sempre a “pasta e fagiuoli, risi e fagiuoli, fagiuoli e formentone, cappucci acidi e fagiuoli, orzo e fagiuoli”. Varianti del primo dopoguerra: piselli, pane con marmellata, riso con carne. Un cultore delle discipline alimentari, Leopoldo Winternitz, dimostrerà sulla scorta di studi internazionali che il peso medio di uno scolaro se di famiglia ricca era di 17,4 chili, se di famiglia povera di 15,20. A Trieste la media era di 15, 56. Urgente un nuovo dietario, ma che cosa ci troviamo? “Pasta e fagioli”, “riso e fagioli”, un po’ di carne. Bistecche e dolci non appariranno mai, e per il pesce i bambini dovranno aspettare gli anni Sessanta.

La storia entra di peso nei piatti della misericordia. è eclatante l’azione “militarizzante” del fascismo. Ci racconta De Rosa come al compito nutritivo si alternano l’Opera nazionale Balilla e la Gioventù italiana del Littorio (Gil), l’attenzione a dieta, benessere e pulizia ci sono, ma lo scopo è allevare una “razza” forte, e il regime non dà pagnotte in cambio di niente: hanno precedenza le famiglie con meriti “patriottici”, e prima di afferrare il cucchiaio bisogna recitare un inno al Duce. Da una circolare del 1931: «è necessario insomma dare un carattere spiccatamente politico a tutta la grande e benefica opera assistenziale». Più esplicita la Gil dell’anno 1942-’43: «La Gil ha una responsabilità non solo assistenziale […] ma soprattutto politica! averlo sempre presente e domandarsi se quanto si fa ed il modo come si fa dà risultati politici pari alle spese e al lavoro che noi svolgiamo». E il menù fascista come si declina? Come sempre: “Pasta asciutta, minestra di verdura, riso e patate, riso al latte, pasta e fagioli”. Arriva l’8 settembre, con la tragica occupazione nazista. Ma neanche i tedeschi trascurano i refettori.

Molto cambia con il Governo militare alleato. Che smonta l’impianto “assistenziale”, ritiene la mensa un diritto, e deplora che dare la patente di miserabile a un bambino lo spogli della propria dignità. Pranzo gratis per chi non ha mezzi, dunque, e a pagamento per gli altri. Ormai ci sono 56 cucine scolastiche. Menù settimanale? Dietario del 1950: “Pasta e fagioli; pastina in brodo e polpette; fagioli, patate e cappucci acidi; riso e fagioli…”. Ancora negli anni Sessanta nessuno spodesta i magici fagioli, e restano solo sulla carta timballi, brodetto, hamburger e torta alla crema.

Da allora la mensa è a pagamento secondo fasce di reddito, non più per i denutriti, ma per sopperire alle assenze di genitori che lavorano. Fine del film. Quella era un’altra storia, e questo è un altro mondo. L’emergenza sanitaria di oggi, infatti, sono i bambini che inclinano all’obesità, e non per colpa dei fagioli.

 

 

 

Copertina:

 

Diana De Rosa

Il fagiolo magico.

La refezione scolastica

a Trieste 1898-1970

Comunicarte Trieste, 2020

  1. 150, euro 19,00