Disordinatamente e senza speranza

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Di tramonti e di albe: oltre Caporetto e oltre Vittorio Veneto

Quale dovere, quale patria, del dopo che possa allacciarsi al prima?

di Luca Zorzenon

 

«Mentre tutt’attorno un mondo crollava, l’impero ultracentenario si disintegrava e la patria era scossa dai brividi di febbre della rivoluzione che si avvicinava, l’alleato spergiuro si accingeva all’ultima battaglia contro il fronte di ferro che in innumerevoli combattimenti non era riuscito a sfondare, per dare il colpo di grazia all’amico tradito e appuntare la “vittoria” alla bandiera dei Savoia! Una gigantesca lotta si scatenò sui monti tra il Piave e il Brenta, un’ultima volta i figli della vecchia compagine imperiale sacrificavano fiumi del loro sangue: per il dovere e la patria!».

Un vinto di Vittorio Veneto – Edmund Glaise-Horstenau, ufficiale di Stato maggiore del Comando Supremo austro-ungarico – inizia così la sua ricostruzione delle gesta del 99° regg. fanteria. Vi è molto, nelle sue parole, di ciò che tanti soldati e ufficiali, «i resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo», pensano e scrivono nelle loro memorie, diari, testimonianze. Di cui oggi Mario Isnenghi e Paolo Pozzato ci offrono una significativa antologia in I vinti di Vittorio Veneto, libro scritto a quattro mani, con una densa introduzione generale di commento da parte di Isnenghi e le preziose traduzioni dal tedesco di Pozzato che inquadra storicamente i singoli testi e gli autori. A pochi mesi dall’uscita di Oltre Caporetto (qui recensito nel n. 35, giugno 2018) la coppia di studiosi completa così un’operazione storico-culturale sicuramente originale nel panorama di studi e ricerche in questi anni di Centenario.

Se nella memoria nazionale italiana oltre Caporetto c’è Vittorio Veneto ma ancor più – ancora (e sempre) Caporetto, snodo epocale nella difficile formazione di un’identità pubblica, ferita storica mai rimarginata, archetipo collettivo inquietante della coscienza politico-civile, la Vittorio Veneto dei vincitori di Caporetto cos’è? Cos’è il loro oltre Vittorio Veneto?

Torniamo alle parole di Glaise-Horstenau: dentro e oltre Vittorio Veneto, un intero «mondo che crollava». Crolla un impero, che si disintegra nel particolarismo nazionale dei suoi tanti popoli quando nella disfatta militare dell’esercito si sgretola l’ultimo cemento che li teneva insieme. Scompare di sotto ai piedi in pochi mesi una realtà, oltre che un’idea politica, imperiale e multinazionale, con la sua storia e la sua memoria secolari, con le sue tradizioni e la sua cultura. Scompare un esercito di milioni di uomini: di morti sui campi di battaglia, ma anche di sopravvissuti che, laceri e affamati, se ne tornano a casa.

Tornare dove? Qual è la casa? E poi, sul fronte italiano: come si può pensar se stessi vinti quando ancora materialmente si calca con gli scarponi una terra che dista poco più di una cinquantina di chilometri da Venezia (e i “fratelli” tedeschi ancora a giugno sulla Marna)? Che armistizio è quello di cui giunge a reggimenti e battaglioni la notizia e che li spinge a risalire «in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza»? Fedeltà e tradimento, scrive Isnenghi, sono in quelle ore, in quei giorni, le parole-chiave, e nutrono dolorosamente pensieri e sentimenti (di orgoglio e di ira, di costernazione e desolazione) sotto sporche, lacere divise grigio-azzurre. Nemmeno i traditori (di quante e quali fedelta?) sono certi e univoci: nelle memorie dei soldati e degli ufficiali austro-ungarici vacillano anche le sicurezze più pregiudiziali, il cui appiglio offre alibi che durano testardi, ma sotto una scorza ormai ingannevole. Il fedifrago italiano, l’inaffidabile Wälschen, suddito opportunista del re Savoia che con atto di fellonia dichiara guerra all’alleato (ma intanto l’autorevolezza auratica dell’ Imperatore per eccellenza è oramai sbiaditissima nell’esile figura di Carlo), il Katzelmacher incapace all’epos di guerra (com’è bella l’Italia, peccato che ci siano gli italiani!), non c’è dubbio, ha vinto: e a risalire quelle valli italiane (se anche non proprio tutte compattamente italiane) la gente irride e umilia, rincorre, chiede il conto di violenze, devastazioni, requisizioni.

E c’è valle e valle, valli che portano a nord, a est, a sud-est. E la Carinzia? Dov’è che finisce quella austriaca e inizia quella slovena? L’ultima compattezza di ieri si sfrangia il giorno dopo lungo valli e convalli diverse che portano un unico esercito a diverse case: in Austria, in Slovenia, in Ungheria, in Boemia, in Croazia, in Bosnia. E i Ruteni? Tornano in Polonia, in Galizia, in Ucraina? Case tutte da (ri)costruire, nel sentimento generale di un tramonto, come ben vede Isnenghi, cui dovrà pur seguire un’alba: ma quale?

Quei «figli della vecchia compagine imperiale», di cui scrive Glaise-Horstenau, hanno ancora certi in loro, pur da sconfitti, almeno il «dovere e la patria» per cui hanno versato «fiumi del loro sangue»? Quale dovere, quale patria, del dopo che possa allacciarsi al prima?

Rimane in tanti diari e memorie, e si aggrappa anch’esso tuttavia all’accezione conflittuale-separatista dell’idea di nazione che sgretola l’impero, l’appiglio all’identità tedesca, nell’austriaco che ormai guarda anche ai Cechi, agli Sloveni agli Slavi tutti, ma anche agli Ungheresi (e forse ad essi soprattutto), come ad altrettanti traditori della Doppia monarchia, accanto ai tradizionali capri espiatori, i socialisti, i pacifisti, gli imboscati (e gli ebrei?).

E non mancano, tuttavia, testimonianze di eccezioni, che rendono ancor più drammatico il “crollo di un mondo”, che Isnenghi e Pozzato ci documentano, il suo tramonto che prelude a un’alba davvero fosca. Nel suo diario Robert Mimra, ufficiale di artiglieria, racconta del collega Kaufmann, ceco, che non segue gli altri connazionali sulla via del ritorno separato, ma vuol condividere col suo reggimento plurinazionale di appartenenza fin gli ultimi giorni della sconfitta: «Ciascuno di voi – dice ai camerati – è per me il reggimento. Se vi lascio sono io a crollare. Cosa posso fare da solo? Cosa posso iniziare? Eh! Ditemelo! Tacete! Resto qua! Al reggimento!». E il commento di Mimra è lucidamente desolato: «Restiamo in silenzio. Kaufmann ci ha spinti a un pensiero terribile, come ricominceremo, se ciascuno di noi sarà solo? […] Com’era bello ancora una settimana fa, lassù sul Campolongo! A dispetto delle granate, a dispetto della spaventosa miseria. Lì vivevamo ogni attimo, i nostri pensieri erano abituati a non spingersi oltre l’esplosione della granata successiva». La guerra, ultimo baluardo di un’identità già da tempo solcata da rughe insanabili, la cui frana definitiva coprono non solo i valzer della bella époque viennese ma il fragore delle ultime bombe tra il Piave e il Brenta.

E ciò che colpisce in queste pagine antologiche della disfatta austro-ungarica, e che Isnenghi mette ben in rilievo, è che, pur nel generale movimento centrifugo di una disgregazione militare che rivela l’implosione politica dell’impero, i diari e le memorie, soprattutto austriache, trattengano quasi disperatamente dell’unità del mondo di ieri l’aggancio allo spirito di corpo e a una fedeltà cameratesca ad un’identità “minore”, fin molecolare, di reggimento, di battaglione, ultima davvero a morire, e che ancora perdura nella memoria degli anni successivi: la maggior parte di questi scritti viene edita negli anni Venti e addirittura più in là ancora.

Dunque, per dirla con uno dei titoli di Isnenghi nella sua introduzione, «dopo la disfatta da austriaci: ripartire come tedeschi»? Riappropriazione e rilancio di uno spirito pangermanico, alla ricerca, come nelle pagine di Alfred Krauss, comandante del I corpo d’armata austro-tedesco nello sfondamento di Caporetto, di un vero capo politico, di un grande uomo-guida all’altezza del «popolo tedesco».

Paolo Pozzato, storico militare che già da anni lavora su documenti austro-tedeschi, nella sua scheda introduttiva al brano antologico di Edmund Glaise-Horstenau, da cui siamo partiti, ricostruisce la biografia dell’ufficiale austriaco. Nazionalista dichiarato, a metà anni ’30 aderisce al movimento nazista austriaco divenendone un importante capo politico, dopo l’Anschluss entra nella Vehrmacht e nel 1941 viene nominato da Hiltler plenipotenziario per la Croazia. Anche queste traiettorie politico-militari fanno parte del tramonto di un mondo e di conseguenti albe: ma nerissime.

Nella parte conclusiva della sua introduzione, Isnenghi, pur sganciandosi in senso stretto dai testi antologici, ci offre un’altra prospettiva di contesto, più ampia e rivolta alle pagine, le più famose, dei grandi letterati austro-tedeschi che accompagnano lungo il ‘900, tra oscillazioni e conversioni ideologiche, e posti in dialettica reciproca, il crollo del «mondo di ieri»: da Zweig a Musil, dai Mann (Thomas, Heinrich, Golo: «straordinario, diviso e divisivo soggetto collettivo che attraversa il Novecento tedesco», scrive Isnenghi) a Joseph Roth, da Hofmannsthal, a Kraus, a Hašek.

E in rilievo, si nota la predilezione di Isnenghi per il Roth degli esordi, piuttosto che per quello di una stagione successiva (la Marcia, la Cripta), nostalgica e intrisa di malinconia delle rovine; il Roth della «fase militante, di sinistra, socialista e antinazista» di una trilogia sperimentale dei primi anni’20, La tela del ragno, La ribellione, Hotel Savoy. Cui vorremmo noi aggiungere il capolavoro di Fuga senza fine (1927), non un Au-dessus de la mêlée ormai irrealistico, ma la tenace ricerca di un’alba dopo il tramonto, in un perenne esilio di reduce che non trova né terra né cielo in alcun luogo, non in Russia, non in Austria, non in Francia, il cui esito finale è nelle desolanti parole conclusive del romanzo: «A quell’ora il mio amico Franz Tunda, trentadue anni, sano e vivace, un uomo giovane, forte, dai molti talenti, era nella piazza davanti alla Madeleine, nel cuore della capitale del mondo e non sapeva cosa dovesse fare. Non aveva nessuna professione, nessun amore, nessun desiderio, nessuna speranza, nessuna ambizione e nemmeno egoismo. Superfluo come lui non c’era nessuno al mondo».

 

 

 

 

Copertina

 

  1. Isnenghi–P. Pozzato

I vinti di Vittorio Veneto

Il Mulino, Bologna 2018

  1. 385, euro 26,00