Don Vatta: il sacerdote jazz

Incontro con il fondatore della Comunità di San Martino al Campo, che si prende cura di tossicodipendenti, carcerati, alcolisti, prostitute, malati mentali

di Claudia Pezzuti

 

Parto dalla fine.

Quando sono uscita da Stella Mattutina, ero commossa per quel che avevo sentito, per la grandezza dell’uomo al di là del ruolo, per la libertà con cui ha parlato a me, amica di amici, che gli fa un’intervista, senza essere giornalista. Per l’accoglienza, soprattutto, che di questi tempi è più rara dell’oro, nonché l’impressione che ci fosse assenza totale di giudizio in lui.

Sento della musica jazz provenire dalla sala in cui mi aspetta.

Gli dico subito che sono una credente e se gli farò delle domande che non gli piacciono, non sarà per screditarlo, ma solo per conoscere le sue particolarità, oltre il suo già noto operato di benefattore. Premessa inutile.

 

Era un musicista, non credo sia un aspetto da trascurare. Quindi partiamo da qui…

Quando sei arrivata stavo ascoltando una registrazione del ’72 di Stan Kenton, jazzista formidabile che usava armonizzazioni particolari, dissonanti con la sua orchestra. Era bianco: questa è una bella precisazione: nella musica jazz non esiste razzismo, e il mondo bianco ha capito di aver ricevuto moltissimo dal mondo degli afro americani. Non si conosce nemmeno l’origine della parola jazz.

Ho amato sempre la musica: mio padre, che accendeva la radio appena tornava dal lavoro, diceva che cantavo ancor prima di parlare.

Ho visto Jerry Mulligan, Sonny Rollins, il mio jazzista preferito e molti altri. Il jazzista è un improvvisatore, e per riuscire a farlo, deve studiare molto, ogni giorno. Ho smesso di suonare in seminario, quando ho capito che nel mondo ecclesiastico, suonare era considerato un aspetto mondano, in disaccordo  con la vocazione.

Invece, se delle volte capita che faccio fatica a raccogliermi per pregare, metto un po’ di musica e questo mi aiuta. Ascolto molti generi e scopro molte cose. Prima abbiamo parlato di musica rock e… ascolta un po’ qua.

 

Don Vatta, accende youtube sul suo ipad, e ascoltiamo insieme You are so beautiful di Joe Cocker.

 

Due mesi dopo, è morto. Non aveva neanche fiato, eppure…

Parliamo di mio padre, anch’egli jazzista, e di Chet Baker, del fatto che un musicista ha un rapporto molto personale col suo strumento e che in Chet Baker sembrava che l’arte lo catturasse, lo consumasse.

Parlando di questi musicisti stranieri, mi rendo conto che la sua pronuncia inglese è perfetta.

Io non so l’inglese, ma, delle lingue straniere, la prima cosa che imparo è la pronuncia. Sono stato negli Stati Uniti su invito del governo americano per un programma, Drug abuse e quando sono arrivato a Washington, mi hanno dato tre minuti per presentarmi. Poi, mi si avvicina uno che mi dice di essere stato mandato dal governo come interprete, ma dopo avermi sentito parlare, mi ha mollato.

A Washington sono stato ricevuto alla Casa Bianca. C’era Reagan. Ho visto due cose poco belle negli USA: la Statua della Libertà e sua moglie, che mi sembrò troppo impostata. Lui era molto prestante, in viso, sembrava le trincee del Carso.

Da Washington sono stato a Chicago dove ho ascoltato una cantante meravigliosa e la sua band di jazz bebop, poi Miami, una città finta e poi ancora a New York, dove ho ascoltato John Lewis al Greenwich Village.

Il silenzio spaventa gli americani, suonano sempre, ho sentito giradischi, radio e tv insieme a Miami, in una sola sala. Credo sia stato a causa del rumore che sono rientrato in Italia dimagrito di sei chili, nonostante quello che ho mangiato in un mese.

Ha mai avuto un suo complesso musicale?

 

A quel punto, mi mostra una foto che gli hanno regalato per i sessant’anni di sacerdozio. Lui era il primo a sinistra del quartetto, vestito di nero, braccia incrociate come gli altri, folte sopracciglia nere, orologio in vista, cravattino e sorriso luminoso e vagamente dominane.

 

Come si chiamava il complesso?

Me lo chiedono tutti, ma io non mi ricordo. Mi ricordo che il pezzo con cui aprivamo era Blue moon, ma il nome proprio no. In questa foto avevo 19 anni.

E perché il sax come strumento?

All’epoca, andava molto di moda la tromba. I sax uscivano da una condizione di accompagnamento, di cornice nelle big band. Il sax solista, semmai, era quello tenore, con una voce molto brunita, mentre il sax alto ne ha una molto umana, perciò l’ho scelto. Ho comperato il mio sax nel ’53.

 

Solo un paio di chitarre che ogni tanto qualcuno passa di lì a suonare, nella sala in cui siamo, il sax lo custodisce in camera.

 

Quando ero in seminario ho suonato un po’ il piano. Una volta, ho suonato Brahms, senza avere lo spartito davanti, ma avendo studiato armonia, sapevo che in quel punto c’era quell’accordo e sull’accordo ho improvvisato. Il mio maestro disse che la musica jazz mi aveva salvato.

 

Entra suor Gaetana dagli occhi azzurro mare: con cui era stato in Kenya.

 

Lei ha a che fare con Dio, come tutti, ma un po’ di più…

Prima parlavi di essere credente. Credente o non credente, questo non importa, importa che Lui crede in noi. Per i miei sessant’anni di sacerdozio volevo fare un po’ di conti. Sono partito dalle messe: ne ho celebrate più di diciotto mila. Mi sono chiesto se fossi diventato migliore per questo… Mah… allora, ho smesso di contare. Il fatto che io creda in Dio è un fatto secondario perché la vita mi ha dimostrato che Lui crede in me comunque.

Etty Hillesum, che parla molto di Dio, ha scritto nei suoi diari che siamo noi a doverlo aiutare. Cosa possiamo fare per Lui?

Riconoscerlo nel nostro prossimo. Ho imparato a vedere nei poveri la presenza di Dio, come dice Gesù nel Vangelo.

Dato che siamo in argomento, qual è il suo Vangelo preferito?

Quello di Gesù. Posso dire solo questo perché, per esempio, Giovanni, che è l’ultimo Vangelo, ci parla della divinità di Gesù. C’è un brano che mi sorprende sempre: quando le donne vanno al sepolcro e vedono che Gesù non c’è, corrono dagli apostoli. Giovanni e Pietro vanno al Sepolcro e confermano. Tra le donne c’era Maria Maddalena. Tutti tornano indietro. Gesù aveva detto che sarebbe risorto, ma in quel momento sono confusi e hanno paura. Al Sepolcro resta solo Maria Maddalena. Quando leggo quelle righe, traggo l’impressione che Maria Maddalena è una donna che crede e continua a credere nell’impossibile. Si guarda attorno, vede un uomo che confonde con un custode e gli chiede se sia stato lui a portare via il suo Signore. Era Gesù: «Maria!» Lei si gira e dice «Rabûni!», che in ebraico significa Maestro. In queste due parole, Maria e Rabûni c’è tutta una storia d’amore: lei aveva creduto nell’impossibile. Gli altri, quelli più “qualificati” se n’erano andati. Lei rimane e ottiene l’impossibile, l’incredibile. Nel Vangelo non si chiarisce se è Maria la sorella di Lazzaro o Maria la prostituta, ma questi sono solo particolari. Ogni volta, mi commuovo di fronte a questo dialogo, così scarno ma così pieno, completo, così evangelico.

Se dovesse dedicare una canzone a Gesù?

Quando porteranno la mia bara in chiesa vorrei ci fosse qualcuno che, in maniera decente, non come si sente adesso, suoni Oh happy day e quando esco My sweet Lord. I primi cristiani chiamavano il giorno della morte dies natalis, il giorno della nascita, che è un giorno felice. E poi, My sweet Lord perché io ho un rapporto tenero con Rabûni, come Maria Maddalena. E My sweet Lord è la canzone che dedicherei a Gesù. Nella versione originale di Harrison, però.

Quindi, non teme la morte come avvenimento…

Non ho fretta, però no, anche per un fatto umano: ho tanti amici e parenti che mi aspetteranno. Temo il dolore fisico, l’ho provato e spero mi sarà risparmiato. Ora, penso a quel giorno con serenità. Ho voluto essere un brav’uomo e un bravo prete, non so se lo sono stato. Delle volte ho amato più gli uomini che Dio, ma so che Lui mi perdonerà di questo. Mi era più facile, gli uomini e le donne li vedevo e soprattutto li vedevo nella sofferenza.

E che strumento suonerebbe, Gesù?

Non so perché era un ciabattone, andava di villaggio in villaggio. C’è solo una volta, nel Vangelo di Marco, in cui Gesù venne chiamato da uno dei capi della Sinagoga che lo supplicò di andare con lui per salvare la figlia. Gli dissero che era morta, ma Lui replicò che non era morta, stava dormendo: dormire per i popoli semiti significava guarire, perché il sonno era il segno che il corpo malato si stava purificando e quindi guarendo. Fuori dalla casa, uomini suonavano e ballavano per qualche evento che non ricordo. Lui li zittisce. Questa è l’unico cenno alla musica nel Vangelo. Nell’antico Testamento c’era il Re Davide che suonava l’arpa… Ma Gesù… non so che strumento potrebbe suonare.

Gesù dice: ama il prossimo tuo come te stesso o ama il prossimo tuo come io ho amato voi?

Dice anche nessuno ha un amore più grande di colui che dà la vita per i propri amici. Quindi, ama sì il prossimo tuo come te stesso, ma puoi essere ‘chiamato’ anche ad amare il prossimo tuo più di te stesso. Donare la vita, non significa morire per, bensì donare la vita in vita, farne un dono per gli altri. Come io ho amato voi, è un punto di arrivo importante perché se Gesù è il figlio di Dio, quindi Dio, credo che ci abbia amati in maniera perfetta, di una perfezione che noi non potremmo raggiungere, ma possiamo tendere a…

 

Don Vatta mi invita a vedere la pioggia che cade forte fra gli alberi del giardino, e la luce altrettanto forte del sole di questo pomeriggio di luglio.

 

Si è mai innamorato?

Sì.

Ha dei bei ricordi?

Sì. La prima volta era un amore adolescenziale, la seconda, da adulto. Ero prete da anni, ormai, e credo di aver riscoperto l’importanza della mia scelta del celibato e del sacerdozio. Non è stato facile rimanerne fedele. Ma era molto umana la cosa. Un uomo che ha una moglie può anche innamorarsi di un’altra, però sa che ha una moglie e ha un rapporto vero di crescita assieme. Può avere un’attrazione per la collega, ma sa che quella non è la sua scelta.

Mi ha detto di aver ricevuto la chiamata. Se penso a una folgorazione, alla statua di Santa Teresa d’Avila del Bernini. Come è stata la sua?

È stata combattuta. I miei progetti erano diversi, volevo fare il musicista. Ero un bravo ragazzo, cresciuto nella chiesa, non ho avuto folgorazioni. Questa cosa è cresciuta un po’ alla volta dentro di me: avevo bisogno di Assoluto e quindi di fare scelte assolute. Naturalmente, un uomo può fare delle scelte solo relativamente assolute perché la condizione umana è imperfetta, ma nell’ambito di questa imperfezione che mi tengo stretta giacché la considerò una qualità, mi sono messo ad ascoltare. E quando ho iniziato a sentire ‘sta roba’ in modo più prepotente, sono andato a chiedere consiglio da un prete amico e altri adulti. Poi mi sono detto che se la chiamata viene da Lui, perché devo andare a parlare con altri? Allora, ho chiesto a Lui di parlare ed è iniziato un dialogo, senza apparizioni e suoni particolari, in cui io mi sono ascoltato dentro. Dubito che qualcuno riesca a definire la vocazione.

Quando è successo?

Ti ho raccontato della sala da ballo? Non andavo volentieri a suonare per il ballo perché  mi piaceva suonare perché le persone ascoltassero, mentre quando ballano non lo fanno. Invitano al Circolo Ufficiali il nostro gruppo a suonare. Arriva la mezzanotte e tutti iniziano a farsi gli auguri per il 1957. Io ho fatto gli auguri al Padre Eterno, dicendo: «Tu sai che a me non piacciono i brodi lunghi e quindi se devo diventare prete, fatti sentire in maniera più sensibile, datti da fare e quindi ti auguro di darti da fare». Quello è stato il momento, e a settembre del ’57 sono entrato in seminario.

Qual è la sua ultima preghiera prima di addormentarsi e la prima  quando si sveglia?

La stessa: il Segno della Croce.

Come si svolge la sua giornata?

Adesso in modo meno caotico di prima. Mi alzo verso le sette e mezza, poi scendo, faccio una colazione all’inglese, caffè latte formaggi, salumi, poche volte dolci. Poi, se non devo dire la messa fuori, dico la messa qua, in questa posizione.

C’è qualcuno che assiste alla sua messa?

Suor Gaetana. Poi, dipende. Sto tanto tempo a casa perché non ho più la salute di una volta e faccio fatica a uscire. Si fa anche fatica a uscire da questo posto perché il giardino e la casa sono accoglienti e posso mantenere la relazioni con coloro che ci vivono. Non ricevo più di una persona al mattino e una al pomeriggio perché i miei incontri non sono mai stati frettolosi, neanche quando vedevo sette, otto persone al giorno nella nostra sede giù in città. C’era chi mi parlava del figlio che si drogava, chi mi chiedeva di aiutarlo a cercare lavoro. A volte, le persone che venivano da me vivevano tragedie come la morte di un figlio per overdose. Ho vissuto molto anche per strada, facevo colloqui anche lì. Una volta me la sentivo, anche se ho avuto sempre molti problemi di salute, ma è anche grazie al limite fisico che ho potuto riflettere di più, a volte da un letto di ospedale.

Ho fatto sette infarti. La cardiologa mi ha detto che le coronarie fanno schifo, ma il cuore è buono. Faccio tutte le terapie che mi dicono, sono portatore di patologie, ma non mi sento malato.

Lei ha ascoltato molte confessioni. Qual è il peccato peggiore che le è stato detto?

In genere, dimentico quanto mi viene detto in confessionale anche se, forse, l’ho fatto di più per la strada. Oggi la gente si confessa molto meno.

Ricordo un uomo molto anziano che non si confessava da cinquant’anni. Quando gli ho chiesto perché aveva deciso di rifarlo, mi ha risposto che era perché aveva perso la figlia poco prima. Ero molto giovane.

E il peccato peggiore in assoluto, secondo lei, qual è?

L’indifferenza, il girarsi dall’altra parte di fronte all’altro, di fronte a chi soffre.

Ha conosciuto molte persone disperate. Il caso che le è rimasto più impresso?

Più persone. Mi è rimasto dentro tutto il periodo dell’AIDS, la sofferenza che non si risolveva mai dei malati perché non c’erano vie d’uscita. Ogni settimana, questi ragazzi erano la metà della settimana prima. Solo quando iniziavano a vaneggiare sapevamo che erano vicini alla fine. E non si sapeva cosa fare. Io ho vissuto in casa con loro e l’unica indicazione dei medici era quella di fare il bucato a 90 gradi.

Che rapporto aveva con Pino Roveredo?

Luciana, la moglie, ha chiamato me per primo quando Pino è morto. Ho celebrato il matrimonio del primo figlio, ho battezzato i nipoti. Avevamo un rapporto fraterno, molti punti di contatto. Diceva che mi conosceva dai tempi della piazza, dal periodo del suo alcolismo, ma che non aveva nessuna intenzione di incontrarmi. Lui era già padre di tre figli quando è venuto a cercarmi per darmi la prima bozza di Capriole in salita. Gli dissi che doveva essere pubblicato.

Per un periodo ci siamo visti ogni giorno, mi faceva conoscere persone che stavano passando periodi tremendi. Il nostro era un rapporto anche scherzoso, ci si prendeva in giro nei momenti più difficili, cercando di banalizzare la gravità del momento. Ho anche presentato alcuni suoi libri come Mandami a dire.

Era una cara persona. Dovevo fare il suo funerale, ma non ho potuto perché mi son sentito male.

 

Mi presta un libro che Pino Roveredo ha scritto venticinque anni fa sulla comunità di Don Vatta, quella di San Martino al Campo. In pochi lo conoscono.

 

Ci salutiamo con la promessa di rivederci, così potrò restituirglielo. Butto un occhio alla libreria: libri di musica jazz e classica, Grossman, Kundera, la Bibbia, Pierluigi di Piazza, Ghandi, il messale quotidiano.  E uno alla terrazzina piena di fiori: ha smesso di piovere e mi porto a casa un pezzo di sole nel cuore.

 

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Don Mario Vatta