L’Italiana in Algeri, specchio di nuovi tempi

| | |

Dall’ipotesi libertina alla tesi restaurativa

di Pierpaolo Zurlo

 

In scena al Teatro Verdi, L’italiana in Algeri di Rossini s’è confermato uno dei grandi titoli di questo compositore, quello che nel 1813 gli diede, appena ventunenne, una celebrità indiscussa. Ma che costituisce anche, in una lettura vagamente sociologica, un ulteriore tassello di questo itinerare alla ricerca d’un’emancipazione della figura femminile ancora ben lontana dall’essere allora realizzata: se alla fine del ’700 Da Ponte, in solido con Mozart, poteva ammannire ad un pubblico non ancora maturo per tali principi d’ordine filosofico e sociale, il concetto che l’amore altro non è che «diletto e spassetto» e che la gioia implicita nel gioco amoroso vale anche il rischio di soffrire le pene d’amor perduto, bastano i ventitré anni trascorsi dalla prima del Così fan tutte per avere, con L’italiana in Algeri la cifra esatta dell’umore del nuovo secolo che privilegiava, in quell’età per l’appunto moral(istica)mente timorata, i valori certi della fedeltà coniugale.

È sufficiente guardare alla trama del dramma giocoso per rendersene conto: Mustafà, Bey d’Algeri, stanco della sposa Elvira, desidera una nuova moglie e la pretende italiana. Si libera di Elvira disponendo di maritarla al suo giovane schiavo italiano Lindoro e si lascia gabbare da Isabella, un’italiana catturata dai suoi corsari, che è alla ricerca del fidanzato da tempo scomparso (Lindoro stesso). Con fascino e astuzia costei avrà ragione di Mustafà, si libererà del fatuo pretendente Taddeo, e libererà tutti gli schiavi italiani d’Algeri, partendo alla volta dell’Italia con Lindoro. Mustafà, beffato e scornato da questa esperienza “italiana” ripiegherà sul sicuro e devoto amore della moglie Elvira. La tesi che l’amore coniugale sia un ricetto sicuro viene perciò dimostrata.

Rossini crea per il libretto spiritoso di Angelo Anelli una musica spiritata di qualità artistica eccezionale, per la vertiginosa coloratura vocale che passava finalmente, e proprio con questo lavoro, dal belcanto dell’opera seria, così com’era stato sin dai fastosi tempi del Barocco, all’opera buffa senza che la scrittura, tanto vocale quanto strumentale, subisse flessioni tali da limitarne la qualità. Elemento questo ben visibile sin dalla sinfonia d’apertura che George Petrou, con tempi serrati e dinamiche attente ha restituito in tutta la sua virtuosistica leggerezza. Proseguendo poi, nel corso della serata, a dosare con parsimonia le dinamiche facendo in modo, come partitura insegna, che le voci avessero sempre il massimo rilievo e che la ricca tavolozza orchestrale servisse da ancella agli smalti lussureggianti della parti vocali. Nei grandi e furiosi “crescendi”, che sono poi il motivo per cui ancor oggi si gode della musica di Rossini, il motore strumentale veniva controllato con mani ferme dando pienamente ragione della meravigliosa scrittura di pagine entusiasmanti come, ad esempio, il finale primo.

Lo spettacolo, in coproduzione con la Fondazione Teatro di Pisa, concepito e diretto da Stefano Vizioli, s’è avvalso delle scene e dei costumi di uno dei massimi artisti contemporanei, esponente di spicco della cosiddetta Arte Povera, Ugo Nespolo, che ha letteralmente sommerso la scena di colori e forme semplici, ma d’una gioiosa e ironica spontaneità che ben s’accordavano alla fantasmagorica e rutilante trama.

Nicola Ulivieri ha disegnato un Mustafà lestofante e maldestro di rutilante simpatia, dal timbro vocale pastoso ed energico, cui nelle scene in duo rispondeva con pari simpatia Nicolò Ceriani che nella parte di Taddeo, vocalmente e scenicamente, ha costruito il degno contraltare buffo al ruolo stolidamente autoritario del Bey.

L’Isabella di Chiara Amarù, garbatamente impertinente e dal timbro vocale caldo e deciso, ha delineato un personaggio complesso, che con disinvoltura passa dal lirismo trasognato all’eroismo più acceso, come avviene nel secondo atto nella grande Aria con coro “Pensa alla patria”. Pianissimi languidi e ricchezza di sfumature l’hanno avvicinata al bel Lindoro di Antonino Siragusa dalla flessuosa linea di canto e dal fraseggio trasparente.

Buone e ben centrate scenicamente le parti di Giulia Della Peruta (Elvira), Shi Zong (Haly) e Silvia Pasini (Zulma). Pubblico entusiasta.