DOPO CANNES

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Considerazioni sul Festival del Cinema

di Gianfranco Sodomaco

 

La cosa è nota: i premi assegnati nei festival cinematografici da giurie internazionali sono un terno al lotto, però sempre con un ‘fondo di verità’, di spiegazione. E anche quest’anno, al Festival di Cannes, è andata così. Cioè? Cioè tutti d’accordo (almeno i critici dei giornali che leggo quotidianamente), con i tempi che viviamo, sul fatto che sono stati premiati i film che avevano un rapporto diretto con la realtà sociale, anche geograficamente intesa (cioè meglio ancora se appartenenti alla nazione ospitante). Per cui ecco spiegato (senza essere critici ‘militanti’) perché il I premio, la ‘Palma d’oro’, è andato al francese Dheepan, di Jacques Audiard, che tratta il problema dell’emigrazione (dallo Sri Lanka in Francia). Il II premio, il ‘Grand Prix’, all’ungherese Làszlò Nemes per Son of Saul, sul problema sempre attuale di Auschwitz e forni crematori. Il III premio, il Premio della Giuria, a The Lobster, del greco Yorgos Lanthimos, che immagina, futuribile ma mica tanto, un mondo stupido e cattivo che punisce chi non è in coppia trasformandolo in un animale. Mi fermo qui, la lista sarebbe lunghissima, un accenno solo, per conferma, al premio per il miglior attore, e cioè al francese Vincent Lindon per La loi du marché, e alla miglior attrice, ex aequo, alla francese Emmanuelle Bercot, per Carol.

Allora: giusta la spiegazione? Il ‘fondo di verità’? Non abbiamo ancora visto nessuno dei film citati ma, in linea di principio, per me sì (a maggior ragione per me, critico ‘militante’): il cinema, detto molto semplicemente, è nato soprattutto per questo, per far vedere e aiutarci a riflettere su ciò che ci circonda, a vedere anche ciò che per innumerevoli ragioni non abbiamo visto. Certo, questo ‘giudizio generale’ potrà essere riveduto e corretto dopo che questi film (o almeno parte di essi) li avremo visionati ma non cambierà la scelta di fondo.

E i tre film italiani, a cui non è andato neanche un riconoscimento? (Solo a Mia madre, di Nanni Moretti, quello della ‘Giuria Ecumenica’, insomma delle associazioni religiose). I film italiani, Youth-La giovinezza, di Paolo Sorrentino, e Il Racconto dei racconti di Matteo Garrone, con l’eccezione di Moretti, hanno meritato di tornarsene a casa a mani vuote. Cominciamo da Nanni Moretti (1953). Nanni è il più vecchio dei tre e ha il merito di avere nella sua poetica (nessuno si scandalizzi, per piacere!) anche una precisa componente ideologica. Senza questa componente non avrebbe mai fatto film come Palombella rossa, La cosa, Il caimano”ecc. Questo non significa che siano i suoi film migliori ma significa che guarda alla realtà anche con la sensibilità e la responsabilità di un punto di vista politico/ideale sul mondo. So bene che son tempi (i tempi di cui parlavamo all’inizio) in cui il termine ‘politica’, soprattutto in Italia, non va molto di moda ma non è questa una buona ragione per farne a meno, per non cercarne il significato profondo. Ebbene, nel film Mia madre Moretti non parla solo di un dolore intimo, privato, suo e del suo alter ego, la regista cinematografica interpretata dalla sempre brava Margherita Buy, ma anche di un disagio, una ‘confusione’, diffusi, che ha a che fare col mondo del lavoro, dello spettacolo, della famiglia, delle famiglie, sullo sfondo di un autobiografismo del tutto particolare, a cui Nanni ci ha abituato ma che ha espresso sempre in forme, linguistico/artistiche, diverse, mai disgiunte da un aggancio con la ‘polis’, addirittura con la ‘ecclesia’ (Habemus papam). Morale: Moretti un qualche riconoscimento lo meritava (e almeno il pubblico di Cannes lo ha capito da subito).

Passiamo a Paolo Sorrentino (1970), altra generazione, provenienza, quindi ovviamente altra storia. Iniziata anche bene con, dopo L’uomo in più del 2001, Le conseguenze dell’amore (2004), analisi lucida e spietata della mafia e incentrata su un personaggio particolare, quello che versa il denaro ricavato dal malaffare nelle banche svizzere, interpretato da Toni Servillo. Piacque, se ben ricordo, proprio al Festival di Cannes di quell’anno. Il regista, nel 2008, con Il divo, conferma la tendenza a voler costruire personaggi a tutto tondo: e in questo caso, trattandosi di Andreotti e di una grottesca descrizione del mondo democristiano che ruota attorno a lui, l’uomo si fa interessante e sembra ‘promettere’. Ma non è così, anche lui (e lasciamo stare altri nomi) vuole fare il salto, andare a Hollywood e a costruire, questa volta, non più il personaggio ma la maschera: quella di Sean Penn in This Must Be the Place (2011), e il suo autocompiaciuto estetismo, già presente nelle opere precedenti, diventa gratuito. La Grande Bellezza (premio Oscar 2014 quale miglior film straniero), è l’esplosione di questo estetismo, di questo piacere della ‘bella immagine fine a se stessa’ anche se il quadro si allarga e, oltre al solito personaggio principale interpretato da Servillo, arriva fino a descrivere, attraverso ‘un mucchio’ di personaggi minori, una città, Roma, più decadente del solito ma pietosa quando il regista, nonostante le sue negazioni, non solo utilizza riferimenti a La dolce vita (1959) felliniana, ma tenta di ricostruire anche le sue atmosfere rifacendosi a Otto e mezzo (1963). Spiace davvero perché, va da sé, il talento c’è ma c’è anche tanta ridondanza di citazioni, dirette e indirette, non solo cinematografiche ma anche letterarie, e poi una particolare attenzione al valore commerciale dell’opera e una bella strizzatina d’occhio al grande pubblico massificato. Youth-Giovinezza non si discosta dal cliché, ormai collaudato, puntando su alcune star del cinema mondiale come Michael Caine, Harvey Keitel e Jane Fonda, su una storia aristocratica (un vecchio direttore d’orchestra amico di un famoso vecchio regista cinematografico), e su una ambientazione altrettanto aristocratica (il classico albergo, guest house, svizzero, con tutti i comfort possibili e immaginabili (massaggiatrici, ballerine e anche qualche prostituta qua e là). Lo sviluppo del plot è scontato (il musicista ritroverà una ‘sua’ giovinezza, il regista, per contrapposizione, si suiciderà) e ciò che resta, più negli occhi che nella memoria, è una infinita serie di immagini calligrafiche sganciate dalla storia, inutili o meglio: atte a riprodurre in tutte le salse il corpo femminile a tutte le età. Non era possibile che la giuria del festival e il suo pubblico esperto cadessero nel ‘raggiro’ sorrentiniano, troppo evidente, ai limiti di una platealità narcisistica.

E veniamo a Matteo Garrone (1968). Garrone, dopo sei opere minori (non sono poche), ci ha regalato il suo capolavoro: Gomorra (2008). Il film, che ha ottenuto un successo mondiale (e il Gran Premio della Giuria a Cannes di quell’anno), è, stilisticamente, un’applicazione/rivisitazione della scuola neorealistica (sfido chiunque a dire il contrario). E anche il film successivo, Reality (2012), certo in modo originale, non si distacca da quella lezione (e torna a vincere il Gran Prix a Cannes). Poteva vincere per la terza volta a Cannes? Difficile. Difficile anche perché il suo Racconto dei racconti volta strada, imbocca quella della fantasia letteraria popolare, della fiaba napoletana del ‘600, con l’intento di fare un ‘discorso universale’ sull’amore, meglio, sulla coppia eros/thanatos, attraverso la narrazione di tre storie. In questo caso inevitabile un gran lavoro di sceneggiatura, di lavoro su e con gli attori per trasformare il fantasy della scrittura in quello cinematografico: e questo si vede, oserei dire quasi si respira nel film ma…, ma qual è il risultato finale? A molti il film è piaciuto, a me è parsa, in definitiva, solo un’onesta prova d’artista, niente di più.

Arrivederci a Cannes 2016.