Due poeti

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Lettura di Fabrizio Buratto e Guido Cupani

di Luisella Pacco

 

Ben ritrovati. Chi ha la bontà di sfogliare Il Ponte rosso con attenzione, avrà notato che per qualche numero le mie recensioni sono mancate. Il motivo è tanto semplice quanto avvilente: non avevo abbastanza tempo per leggere.

Sarebbe sciocco negare che per i romanzi ce ne vuole tanto. Occorre poter tenere per mano i personaggi con calore e partecipazione attiva, come si tiene un bambino: si attraversa la strada con lui, non lo si lascia.

Così, è venuta in mio soccorso la poesia, che si presta meglio allo scampolo di tempo, e non perché sia meno importante o abbia meno spessore, anzi, ma perché nella sua brevità non trattiene a lungo nell’atto fisico della lettura.

In questi mesi ho conosciuto personalmente e letto moltissimi poeti. Sono stati miei ospiti in una trasmissione radiofonica che conduco; per preparare le puntate li ho studiati tutti con dovizia. Alcuni mi hanno toccata di meno, altri mi hanno emozionata.

Due di loro mi hanno fatta pensare che potevo – dovevo – anche scriverne qui.

 

Si tratta di Fabrizio Buratto e Guido Cupani. Studi, esperienze e città differenti, tra di loro non si conoscono, non ancora (forse dopo questo articolo si cercheranno, chissà).

Ho riflettuto su cosa avessero in comune e perché io sentissi così forte la voglia di parlarne nello stesso articolo. Ecco la ragione: quando ho chiesto loro se avessero presentazioni imminenti, o eventi o reading o festival letterari a cui partecipare, mi hanno risposto schivi che… no, per la verità no, perché “non so, non mi piace spingermi, non amo propormi” o qualcosa del genere. Ma in entrambi era un “no” senza frustrazione, sereno; era la riservatezza naturale e pacifica di chi sa prendersi il tempo che serve.

Quello che serve prima della pubblicazione – coltivando, curando, sbalzando le parole, lasciandole decantare come un vino – e quello che serve dopo, quando correre da un evento all’altro come commessi viaggiatori sarebbe qualcosa di stridente e chiassoso, antipoetico.

È questa pudicizia, questo atteggiamento ritroso, questo spazio difeso, ad aver fatto colpo su di me.

Non me ne vogliano i tanti altri poeti che ho intervistato. Alcuni li apprezzo moltissimo, ma non hanno alcun bisogno che qualcuno parli di loro; hanno pubblicato di più e, soprattutto, si fanno vedere in giro.

Buratto e Cupani, al contrario, – questa è la mia impressione – coltivano la loro poesia in un terriccio ben drenato di lunghi pensosi silenzi.

 

Fabrizio Buratto è nato ad Alessandria nel 1974, è laureato in storia, vive e lavora a Milano. Ha scritto Fantozzi. Una maschera italiana e Curriculum atipico di un trentenne tipico. Nella vita si è occupato, volente o nolente, di molte cose. Da qualche anno pratica massaggi, e ne scrive, anche.

Parliamone (2018) è il suo primo libro di poesia (la silloge ancora inedita aveva vinto il Premio Arturo Giovannitti 2017). Edito da LietoColle, è un libro curato e sobrio che denuncia la vacuità del nostro vivere, le nostre dipendenze, il non saper più pensare autonomamente, la pericolosa deriva del lasciar decidere ad altri, ad altro. A Google, persino…

 

Ah, saperlo /l’algoritmo che può prevedere /i miei spostamenti /i mie sentimenti /le mie ricerche /del tempo perduto. /Parola chiave: “ti prego” /o Google /dimmi che cosa farò domani /così che possa /lavarmene le mani.

 

E il lavarsene le mani consiste anche nel non avere memoria storica:

 

“Meditate che questo è stato”./Chi è stato? Cosa è stato? /Allo stato dei fatti, nonostante /le testimonianze, i filmati, gli atti /quanti meditano su quel che è stato?

 

Siamo distratti, smarriti senza sapere di esserlo, siamo criceti nella gabbietta, imbrigliati in qualche gioco che ci anestetizza, ci fa divertire e divergere via dalla verità. Pensarla, pesarla, sarebbe troppo doloroso:

Troppo pesante /ammettersi che /non c’è dio /non c’è senso /non c’è perché. /E allora continuiamo a raccontarci frottole / […]

 

La soluzione sta (forse) in quel titolo che è consiglio pacato e intelligente: parliamone, entriamo in un legame vero, ascoltiamoci senza giudicare, guardiamoci negli occhi (non nel display), tocchiamoci (banale a dirsi, ma l’autenticità di un contatto è nel contatto; che non vuol dire scambiarsi la mail o il numero: è stretta di mani, è abbraccio).

Sarcastiche, taglienti, ma anche semplicemente buone e sagge, le quarantacinque poesie di Parliamone scivolano via in una illusoria, sin troppo leggibile, velocità; per poi costringere il bravo lettore a tornare indietro, e indietro ancora, a rileggere e a riflettere su ciascuna, a riconoscere se stesso mentre commette proprio quell’errore o mentre marcisce in quel medesimo nonsense di gesti ripetuti.

Da quando ho letto Parliamone, non credo di aver più fatto una ricerca sul web senza che un pensiero, obliquo sul collo, mi rimproverasse: “Ehi… non sto delegando un po’ troppo? Perché non provo a esercitare il ragionamento, a forzare la mia memoria? Forse la risposta che Google può darmi, io già la conosco…”.

 

Il secondo poeta di cui voglio dirvi è Guido Cupani.

Nato a Pordenone nel 1981, vive a Portogruaro ed è astrofisico all’Osservatorio astronomico di Trieste. Ha scritto due libri di poesia (Le felicità e Meno universo), o tre se vogliamo considerare che il primo, del 2011, è uscito riveduto e corretto nel 2015, con un lavoro di cesello che il poeta sentiva necessario.

Vi dirò poche cose dello splendido Le felicità (Samuele editore) se non raccomandarvi di non sbagliare: è plurale, non singolare. Le felicità sono tante, piccole, provvisorie… Piovono addosso, a gocce lievi.

 

Le felicità sono brevi. /Come matite più e più volte /temperate. Come il gambo /delle margherite di prato. / […] /Esistono felicità a pioggia, /felicità variabili, /felicità serenamente /rasciugate. /Una felicità intera /è improbabile.

 

E vi invito a pensare alla missione scrupolosa che porta un poeta a ripubblicare lo stesso titolo quattro anni dopo perché ormai qualcosa non aderiva più come doveva (c’era qualcosa di troppo, o troppo poco?, perché quella virgola?, perché quella cesura?, perché quel verso?). Immaginate l’attenzione (direi l’affetto) per le parole già scritte che però sono ancora vive e bisognose di esser levigate.

Le felicità è composto di trentacinque poesie perfette, che dicono la fermezza senza essere dure, che dicono l’amore senza essere sdolcinate. Sono azzurre senza il bisogno spasmodico di dire cielo.

Ho letto tanti poeti, vi dicevo, e sapeste in quanti ho trovato – abusata, anche due volte nello stesso componimento – la parola cielo. Evidentemente piace, suona bene…

Ma Cupani, che il cielo lo conosce e lo osserva per professione, non osa dirlo, o lo dice poco; ne ha rispetto.

Le felicità è delicato e indimenticabile come i fiocchi di neve. E come la neve, sa spiegare.

 

Alla neve non importa dove cade /in totale souplesse /scombina orari e rotte, rompe /le uova nel paniere /La neve è come il tempo /solo più lesta e bianca /La neve sa spiegare cos’è una /cancellata /un ramo, un davanzale /sa a cosa serve un parabrezza, perfino /il perché di una cicca sul marciapiede /La sua etica è semplice: ama ciò che ha grazia /sotto la neve, rifiuta il resto

[…]

 

Meno universo esce nel 2018 per Dot.com Press, nuovo rispetto a Le felicità ma in realtà a quello profondamente congiunto, per tematiche e anche per quella parola, “universo”, che timidamente già compariva (con attributi via via diversi: “possibile”, “reale”, “piccolo”, “sistema isolato”…) .

Il poeta-astronomo adesso, in una disincantata preghiera, ne chiede ancora meno.

 

DACCI MENO UNIVERSO, UN PO’ DI MENO, /e una mente che pieghi le maniche dietro le spalle, /che abbia pace nel sonno di un cassetto, /e rimetti a noi i nostri limiti /come noi li rimetteremmo se potessimo, /Padre dell’essere appena, /spegni le stelle superflue del nostro cielo / e non farci vedere più di un soffio /oltre il bordo del prossimo, questo cortile, /questa cena, due fiori sul davanzale quotidiano, /un libro aperto anche domani /sulla stessa pagina, numeri soltanto fino al dieci /e delle lettere solo il tondo di una O

 

In quest’ultimo verso riconosco la medesima costruzione de di tutti gli amori solo quello coniugale, dalla poesia Curriculum di Wyslawa Szymborska.

Amatissima da entrambi i poeti (altro punto che li accomuna), in particolare Cupani è fiero di poter dire che la conosceva e apprezzava ben prima che il Nobel del 1996 ne decretasse la fama anche nella sbadata Italia.

E sento, in Cupani, anche la voce generosa e calma di Pierluigi Cappello.

Gliel’ho detto, lui s’è schermito: è un complimento troppo grande! Eppure è vero. Lo dice anche Stefano Guglielmin nell’introduzione.

Così come, nella nota finale, Francesco Tomada parla della sua “forte eticità”.

E ora mi scopro responsabile del mondo è il primo verso di una poesia dedicata alla figlia. Ma c’è molto di più del senso nuovo di una paternità che Cupani avverte fortissima ed entusiasmante.

C’è una responsabilità che va oltre il perimetro della casa, una cura amorevole che va oltre quella di sostenere la testolina a quella nuova sorprendente piccola creatura; c’è la responsabilità dell’uomo cittadino verso il mondo, per tutto ciò che sta attorno.

Occorre gratitudine per la tranquillità in cui viviamo, noi che siamo Lontano da Srebrenica e da ogni altra tragedia, noi che il nostro disagio è solo della fetta che cade dal lato imburrato.

Occorre memoria storica (anche qui, ecco la medesima raccomandazione), occorre conoscere e ricordare l’ora e il giorno in cui sanguinarono le ferite del mondo, da Hiroshima agli attentati di Parigi del 2015.

Come Buratto, anche Cupani sembra metterci sull’avviso: l’indifferenza (così ingannevolmente confortevole) è pericolosa. Orribili cose possono accadere se gli uomini buoni abbassano la guardia e smettono di ricordare il male e di essere grati del bene.

 

Leggete questi versi, portateveli in tasca, in borsa. I libri di poesia sono sottili chiari e leggeri. Tirateli fuori, invece dello smartphone, nei momenti concavi delle attese, sul treno, sull’autobus… Mentre la vita furiosa vi corre accanto come un fiume in piena, abbassare gli occhi su una poesia – su poesie come queste – è una forma di resistenza, è imparare a stare saldi e consapevoli sulla sponda che ci è toccata in sorte.