E il critico fece autocritica

| | |

Nuove confessioni di Giulio Montenero, a ruota libera e a cuore spalancato

di Roberto Curci

 

Alla tv è stato trasmesso di recente, nell’ambito della rubrica “Art Night” di Rai 5, un bel documentario su Carlo Scarpa, uno dei massimi architetti italiani del ‘900. Tra vari spezzoni dedicati al suo curriculum vitae si sono elencate e commentate le opere per cui è oggi ricordato e ammirato, in particolare i rifacimenti di prestigiosi musei: quello di Palazzo Abatellis a Palermo, la Gipsoteca canoviana a Possagno, il Museo di Castelvecchio a Verona, il Museo Correr e la sede della Fondazione Querini Stampalia a Venezia, non esclusi certi immaginifici lavori ex novo quali il Negozio Olivetti di piazza San Marco (Scarpa avrebbe confidato agli amici di non aver costruito null’altro di così perfettamente riuscito) e la cosiddetta Tomba Brion a San Vito d’Altivole, presso Asolo.

Nel programma mancava però qualsiasi citazione di un’opera che a lui viene comunemente  e giustamente attribuita, benché sulla sua impostazione complessiva si siano sedimentati aggiustamenti e ritocchi poco rispettosi dell’idea iniziale, nonché i cascami delle infinite polemiche e degli inciampi tecnico-burocratici che han fatto sì che l’opera in questione, il cui progetto di massima risale al 1963, si sia potuta considerare conclusa appena nel 1991 (Scarpa era morto nel ’78). Parliamo, s’intende, del Civico Museo Revoltella di Trieste, i cui lavori di ampliamento, con l’addizione della cosiddetta Ala Scarpiana (inglobante i Palazzi Brunner e Basevi) alla dimora storica del barone, vennero infine portati a termine, tra compromessi vari, da architetti suoi allievi quali Franco Vattolo e Giulio Marchi, col tocco conclusivo di Gianpaolo Bartoli.

All’intera, travagliatissima vicenda ha dedicato una ricostruzione senza peli sulla lingua Giulio Montenero, direttore del Museo dal 1961 al 1989, nel suo appassionato libro-memoriale Parlandone da amico. Trieste, Vicenza, quasi un secolo di vita nella lettera a un amico, edito da Lint nel 2017.

Nato nel 1926 e quindi da considerarsi il decano dei critici d’arte triestini e giuliani, Montenero ha avvertito in tarda età l’esigenza e l’urgenza di vuotare il sacco o, altrimenti detto, di mettere tutti i puntini sulle “i”. Tant’è vero che da poco è uscito un suo nuovo libro, Processo contro me stesso. Quattro testimonianze (Battello Stampatore, pagg. 138, euro 16) che, con aguzza vena critica e autocritica, prende nuovamente di mira – lo dice l’esplicito titolo – il sé stesso “disarmato nella vita”, e dunque vittima di un’inguaribile timidezza e inadeguatezza, e di un costante bisogno di comprensione, solidarietà e assolutorio affetto.

“Renitente e pavido nell’uscire allo scoperto”, si descrive senza sconti Giulio Montenero, ma anche “estremamente determinato” in certe circostanze cruciali, in cui “uscire allo scoperto” gli fu giocoforza. E in effetti ben poco concorda la sua minimizzazione di sé con le ripetute battaglie che nei lunghi anni della direzione del Revoltella egli dovette combattere. «Sapevo che avrei trovato la contrarietà di tutta una città fatta di benpensanti, gelosa delle segrete intese tra i propri architetti e i propri impresari edili» aveva scritto all’amico Fernando Bandini proprio a proposito della scelta del veneziano Carlo Scarpa per il restyling del Museo. Ma fu con impensabile tenacia e pure con il coraggio certo delle proprie convinzioni che, nella “città di benpensanti”, egli seppe affrontare nell’arco di quasi un trentennio i trabocchetti tesi a lui, e all’architetto da lui prescelto, da amministratori, funzionari, ragionieri e periti disinteressati, ostili o votati ad altre priorità, per cui, ad esempio, nell’intero decennio tra 1970 e 1980, «la fabbrica fu abbandonata completamente, priva di ogni cura», ricettacolo di spazzatura e di topi: sicché, alla fine, «norme mutevoli, incerte e contraddittorie […] impedirono la conformità al progetto di Scarpa». Un coraggio (il coraggio, l’”estrema determinazione” dei timidi, appunto) che, nel novembre del 1989, l’avrebbe portato a rassegnare clamorosamente le dimissioni dalla direzione del Museo, denunciando la totale disattenzione prestata al suo recupero e la serie infinita degli “artificiosi ostacoli frapposti”.

Nelle pagine del suo nuovo libro, riaffiora qua e là il fisiologico complesso d’inferiorità di Montenero, miscelato con una minuziosa rivisitazione autobiografica di toccante sincerità, ma anche con riflessioni a tutto campo (storico, filosofico, economico, politico…) che attestano la vastità, o meglio la globalità, dei suoi interessi e delle sue attenzioni culturali e civili, nel segno di un’“humanitas” fatta al tempo stesso di grande rigore intellettuale, di onnivora curiosità e di una schietta vena anticonformista (forse segretamente anarchica).

Scritto a cuore spalancato, con il gusto un tantino masochista di raccontarsi senza reticenze e senza falsi pudori, Processo contro me stesso va comunque ben al di là di un’autoflagellazione sulla pubblica piazza, dato che dalle molti lezioni di vita duramente apprese Montenero trae lo spunto per dare, a sua volta, lezioni di vita ad uso delle giovanissime generazioni. Così, nella prima delle quattro “testimonianze” e a conclusione della narrazione del suo stesso, erratico percorso esistenziale, riassume in pochi consigli-comandamenti il succo di quanto in novantacinque anni ha spremuto da infinite, amare esperienze vissute sulla propria pelle.

E dunque si sente autorizzato a dire a ragazze e ragazzi, col tono del buon maestro di scuola elementare quale in effetti agli esordi fu: 1. Godetevi la vita (già, perché il piacere del mondo bellissimo datoci da Dio è stato “guastato dai moralisti”, com’è successo a lui); 2. Studiate con passione (lo afferma comprendendo di essere invece stato “pigro, spesso svogliato, sempre incostante”); 3. Non siate vanitosi (“mai mostrarsi intelligenti e istruiti, poiché gli invidiosi vi umilieranno”); 4. Approfittate dei buoni consigli (ma anche “delle protezioni, delle raccomandazioni a chi conta” che vengano da genitori, parenti e amici di famiglia. Ché “nessuno si fa da solo”); 5. Diffidate di coloro che all’improvviso vi si avvicinano cordiali e premurosi e dicono che hanno trovato in voi il loro miglior amico (dato che troppo spesso si cede “alle lusinghe di finti amici”, come a lui purtroppo è accaduto).

Un pedagogo sui generis, è insomma qui Montenero. Ma, lo afferma nelle prime righe del capitolo successivo, ciò discende soprattutto dalla sua ansia per il futuro di figli e nipoti. Un’ansia paradossale: «Sono gravato dal senso di colpa per aver dato loro un esempio di coerenza tra mezzi e fini», quella coerenza che ai tempi nostri è diventata “un vanitoso orpello” se non un ostacolo, un boomerang. Si legano a queste riflessioni pagine in cui Montenero sembra saldare un ampio debito di riconoscenza morale e intellettuale nei confronti di Claudio Magris e della moglie scomparsa, Marisa Madieri. Né mancano i fantasmi di antichi compagni di strada (ex “adolescenti provinciali”, allora derisi per le loro velleità culturali:«eppure non eravamo tutti da buttar via»): Francesco Russo, Silvio Cusin, Mario Maranzana, Paolo Bernobini.

L’indomito, perenne, doloroso travaglio di una mente (e di un cuore) attenta ai più vari e allarmanti segnali provenienti dal mondo esterno trova espressione nelle due “testimonianze” finali, datate rispettivamente giugno 2017 e luglio 2020: il sostanziale pessimismo della ragione di Montenero si esprime in due brainstorming a ruota libera, quasi stordenti per la forza incalzante delle argomentazioni, in cui si toccano tasti dolenti dell’attualità dell’altrieri e dell’oggi, dalla progressiva dissoluzione dello Stato di diritto, corredata da una «noiosa giaculatoria di insipide menzogne», alla corruzione dilagante («in tutta Italia la mafia è nell’aria»), dalla «tirannide monetaria e militare» alle rielaborazioni del pensiero marxista, prive però di ogni contatto «con la realtà viva del presente»; e, ancora, dallo smercio «di prodotti e servizi nocivi» pur sempre «condizionato dal nostro consenso», alla disinformazione planetaria, la resistenza alla quale «sarà il fronte avanzante della lotta di classe».

La tagliente lucidità di pensiero si salda qui con un’accorata esigenza utopica. Ne danno testimonianza sia le pagine dedicate all’«immane, multiforme, prodigiosa operatività di Adriano Olivetti», definito «la grande scoperta della mia vita», sia la gratitudine espressa «nei confronti di coloro che hanno fatto, di me, me stesso. E subito si alzano molte voci: Piero Gobetti, Guido Calogero, Riccardo Lombardi, Lelio Basso, Tristano Codignola, Umberto Terracini, Giuseppe Dossetti, Giacomo Lercaro, Joseph Ratzinger…».

Ce n’è d’avanzo per chi voglia appiccicare a forza un’etichetta ideologica a un uomo, invece, totalmente libero nel pensiero quale Giulio Montenero, ancorché egli annoti en passant di essere stato, per le sue opinioni, «deriso da alcuni, trattato da nazifascista da altri». Da queste pagine appassionate esce dunque un impietoso ma cristallino autoritratto, in cui la parola finale può forse essere lasciata a un insigne psicologo, «l’amico più caro che io ho avuto in vita mia», e che indubitabilmente è Silvio Cusin: il quale, “scherzando” ma neppur tanto, definì quello di Montenero «il caso di una persona realmente emarginata, che nel contempo soffre di vittimismo».

«Oppure, simmetricamente, di un affabulatore, il quale è al tempo stesso l’unico testimone attendibile delle vere disavventure nei viaggi, reali o immaginari, della propria esistenza». In entrambi i casi, suggella Montenero, «questi disturbi rientrano nella Sindrome di Münchhausen”: ovvero del famoso Barone che, affondando nelle sabbie mobili, si trasse in salvo da sé afferrandosi per i capelli e tirando verso l’alto.

 

Giulio Montenero

Processo contro me stesso

Quattro testimonianze

Battello Stampatore, Trieste 2020

pagg. 138, euro 16,00