SPECIALE SG Echi di vita nella poesia di Umberto Saba

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di Claudio Grisancich

 

A diciassette anni non amavo andare a scuola, studiare; amavo piuttosto essere innamorato, correr dietro alle ragazze. E per avere qualche soldo da spendere per offrir loro il cinema o la consumazione persi dentro in qualche caffeuccio dell’Acquedotto, un paio di volte alla settimana facevo il cameriere in un circolo sportivo dalle parti di piazza Sant’Antonio dove di sera si ballava. Cosa che facevo anche d’estate per lo stesso circolo in un campetto all’aperto dove principia il Boschetto nel rione di San Giovanni. Ma d’estate, rinunciando di andare al mare a Barcola, per tirar su qualcosa di più che non gli spiccioli delle percentuali sulle consumazioni e delle mance, andavo “in piazza” la mattina presto per farmi prendere a giornata come scaricatore in porto. Là sì che i soldi fioccavano tanti, si sgobbava, ma era un bel tornare a casa la sera con in tasca fogli addirittura da diecimila lire (ed era il 1957!). Ma non solo per i soldi andavo al porto: là facevo esperienze che a scuola non mi sarebbe capitato di fare. Stavo con la gente del porto: i portuali. Gente di tutte le età, anche ragazzi come me, forse qualche anno più vecchi, ma che avevano già messo su casa con moglie e figli. “Studia – mi dicevano – a noi toccherà far sempre ‘sta vita, studia, non far come noi che non avevamo voglia” . Uno, avrà avuto poco più di vent’anni, mi prese a ben volere, mi voleva sempre con lui in squadra. Stavamo insieme in locanda, non voleva che tirassi fuori mai una lira (“tu sei studente”, diceva): pagava sempre lui. Era sposato con una bella ragazza, operaia in una fabbrica in porto, ma dopo il matrimonio lui aveva voluto che lasciasse il posto e rimanesse a casa. La viziava comprandole quello che voleva: tutti i tipi di elettrodomestici e radioline a transistor, eppoi i regalini: gli ori, i giri di catenine, orecchini, anellini…per non dire del ciarpame inutile di soprammobili, orologi, ninnoli, quadretti, pupotti, bamboline… Lui era felice, non parlava che di lei, del bene che le voleva e di come stavano bene a far l’amore… Il mio amico era sempre allegro, ma capitò un giorno che venne in porto scuro in viso, serio, non rideva né aveva voglia di parlare, e il giorno dopo idem, ma verso sera agganciando un’ultima imbragata di carico per la stiva cominciò a cantare. Una canzone che da bambino sentivo cantare da mia madre: “La mia piccola rondine è fuggita, senza lasciarmi un bacio, senza un addio partì. Non ti scordar di me, la vita mia legata a te…”

La canzone era triste e più triste ancora sentirla cantare da lui con rassegnata disperazione. Faceva impressione guardarlo: stava in piedi, in alto sul vagone, la figura contro la sagoma scura della nave e sopra aveva il cielo blu che andava scurendo col tramonto. Cantava voltato verso fuori, senza badare a nessuno. Era un’invocazione, una preghiera. La giovane moglie si era stancata di tutti quei “balocchi” casalinghi e se n’era andata di casa con un graduato di marina. Faceva pena il dolore di quell’uomo. Il suo canto dava voce agli amori infelici passati e a venire di tutto il mondo…

Molto tempo dopo tra le poesie della raccolta Preludi e canzonette (1922-1923) mi capitò di “vedere” descritta da Umberto Saba la stessa scena. Nella poesia Il canto di un mattino il poeta dice di un giovane marinaio che mentre toglie la gomena dalla bitta canta:

Da te cuor mio, l’ultimo canto aspetto,

e mi diletto a pensarlo fra me.

 

Del mare sulla riva solatia,

non so se in sogno o vegliando, ho veduto,

quasi ancor giovanetto, un marinaio.

La gomena toglieva alla colonna

dell’approdo, e oscillava in mar la conscia

nave, pronta a salpare.

E l’udivo cantare,

per se stesso, ma sì che la città

n’era intenta, ed i colli e la marina,

e sopra tutte le cose il mio cuore:

“Meglio – cantava – dire addio all’amore,

se nell’amore è l’infelicità.”

Lieto appariva il suo bel volto; intorno

era la pace, era il silenzio; alcuno

né vicino scorgevo né lontano;

brillava il sole nel cielo, sul piano

vasto del mare, nel nascente giorno.

 

Egli è solo, pensavo or dove mai

vuole approdar la sua piccola barca?

“Così, piccina mia, così non va”

diceva il canto, il canto che per via

ti segue; alla taverna, come donna

di tutti, l’hai vicino.

Ma in quel chiaro mattino

altro ammoniva quella voce; e questo

lo sai tu, cuore mio, che strane cose

ti chiedevi ascoltando: or se lontana

andrà la nave, or se la pena vana

non fosse, ed una colpa il mio esser mesto.

Sempre cantando, si affrettava il mozzo

alla partenza; ed io pensavo: E’ un rozzo

uomo di mare? O è forse un semidio?

 

Si tacque a un tratto, balzò nella nave;

chiara soave rimembranza in me.

 

Delle poesie di Saba questa – e nel Canzoniere tantissime vi sono certamente più belle e che di più ammiro – sento ancora oggi essere la più mia.