Ernesto

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“La purezza consapevole della coscienza matura” (E. Morante)

di Luisella Pacco

 

Trieste, 1898. In un magazzino di Via…, un uomo, un bracciante avventizio di ventotto anni che però ne dimostra qualcuno in più, dall’aspetto stanco e lontanamente zingaresco, siede su un mucchio di sacchi di farina. Gli è accanto in piedi un ragazzo di sedici (presto diciassette. Tra un mese), Ernesto, che nella stessa ditta è praticante di commercio. Inizia con un dialogo banale, sparlando del padrone (quel strozin. Un fiorin e mezo per caricar e scaricar due cari), la loro confidenza. “Perché nol se senta?”, disse – dopo un breve silenzio – l’uomo. “El se acomodi qua (ed accennò un posto molto vicino al suo).

Se dovesse sporcarsi, dopo lo pulirà lui, lo rassicura. Oppure, propone, può mettergli sotto la sua giacca.

No ghe xe bisogno, – rispose Ernesto . – La farina no lassa sporco; basta una spolverada e non se vedi più gnente.

Ernesto siede e inizia a raccontarsi: vive con la madre, poco affettuosa, che non lo bacia mai né lo loda, e con una vecchia zia che la ga i soldi e la ne mantien. Nessuna figura maschile. Come il padre di Saba, anche questo si è separato dalla moglie ancor prima che il figlio nascesse. C’è uno zio, questo sì, che gli fa da tutore, ma è sposato, viene a pranzo la domenica, e per mi xe anche tropo.

L’uomo non lo nasconde: vorrebbe diventassero amici. Ma non vuole ci siano fraintendimenti e chiede: “Ma el sa cossa che vol dir per un ragazo come lei diventar amico de un omo come mi? […] El lo sa?”

Sì, Ernesto lo sa. Non l’ha mai fatto, ma lo sa. Posa timidamente la mano sulla gamba dell’uomo. Risalì adagio, fino a sfiorargli appena, e come per caso, il sesso. Poi alzò la testa. Sorrise luminoso, e guardò l’uomo arditamente in faccia.

Ciò che segue, nei momenti e nei giorni successivi, è descritto senza inibizioni.

Saba “non tralascia nessun particolare, per quanto difficile e segreto, purché gli sembri necessario; non castiga nessuna parola”, scriverà Elsa Morante nel 1961, entusiasta delle bozze che ha avuto modo di leggere. “Però, le stesse cose che altri, nel dirle, potrebbe rendere oscene, o ridicole, o sordide, si rivelano invece, dette da lui nella loro chiarezza reale, naturali e senza offesa. Lasciando limpida, alla fine della lettura, la emozione degli affetti, restituita alla purezza consapevole della coscienza matura.”

Attenta – mi ha detto chi sapeva che avrei scritto di questo libro -, attenta: questa è un’opera su cui hanno scritto e polemizzato in molti. E poi, Saba – mi son detta da sola -, che presunzione!, io chi sono per parlare di Saba?

È vero.

Eppure, per me prima di tutto c’è un libro, bello, fluido, di incredibile forza poetica; ci sono le sue pagine da aprire; c’è la storia – in fondo molto semplice – che si dipana.

Davvero, mi chiedo, c’è ancora dell’altro oltre a questo? C’è ancora, oggi, da temere qualcosa? C’è ancora la necessità di un’attenzione particolare o una cautela maggiore nel parlarne?

Sì, come per tutte le opere postume e incompiute, e tutti i dubbi che ne derivano (ottima e utile la nuova edizione a cura di Maria Antonietta Grignani, del 1995, che recuperando manoscritti originali ristabilisce dialoghi e ripristina parti omesse), ma non certo per la tematica.

Ernesto è un adolescente affamato della vita, come tutti gli adolescenti ansioso di diventare grande, a tratti bravo e coscienzioso, a tratti sciocchino e crudele.

Quel che succede tra i due è un incontro umano, con le sue sfumature – la curiosità di Ernesto e poi, la noia, l’irritazione, al punto da lasciare il lavoro per non rivedere l’uomo mai più -, con i suoi momenti di eccitazione e d’ombra: è uno dei tanti episodi nella formazione di un ragazzo che cresce.

Verrà anche la prima esperienza con una donna, la prostituta Tanda, gentile con un ragazzo tanto giovane e che le pare così impacciato e candido.

Verrà la prima rasatura dal barbiere Bernardo (che un pettegolezzo di strada vorrebbe fosse suo padre) che dopo il taglio dei capelli vede sulle guance di Ernesto la prima peluria e prima che lui possa sottrarsi gliela rade, lasciandolo uscire dalla bottega anche se non ha pagato tant’è seccato o emozionato per quella “prima volta”, significativa quanto le altre.

Verrà la difficile confessione alla madre Celestina. Ebbene, mamma, mammina, io e quell’uomo abbiamo fatto di quelle cose… […] Son anche sta una volta da una dona. E la donna, che lui riteneva così fredda e severa, ferita quasi più dalla seconda notizia che dalla prima, lo perdona, lo accoglie, gli bacia la fronte, e quasi sorride di se stessa e della propria ingenuità. Ma io […]che ti credevo ancora innocente come un colombino.

Verrà l’entusiasmo viscerale per il concerto del violinista Franz Ondriček, la felicità tutta di fanciullo di vedersi di fronte un musicista ammirato e famoso, come lui sogna (senza alcuna speranza) di poter diventare.

Verrà la nuova amicizia con Emilio detto Ilio, incontrato proprio quel giorno alla Filarmonica, fonte di uno struggimento, una melanconia che non aveva ancora provato.  

Verrà, insomma, la vita.

Così piena di nomi e di eventi e di altre passioni da lasciar indietro, pressoché dimenticata, quella breve esperienza di cui Ernesto teme le possibili conseguenze. Quell’uomo senza nome (avete notato?, solo a lui viene negata la dignità d’un nome: perché?) potrebbe far chiacchiere o persino meditare una qualche vendetta per essere stato così bruscamente allontanato.

Ma Ernesto si sbaglia.

L’uomo […] non solo non si confidò mai a nessuno […] ma quelle poche volte che lo incontrò per strada finse di non vederlo.

Accade anche parecchi anni dopo, a intervalli sempre più lunghi […] Ernesto, anche lui molto cambiato, lo riconobbe appena: non era nemmeno sicuro che fosse lui o un altro. Lo rivide curvo, con le mani incrociate dietro il dorso: un vecchio, gli pareva, un vecchio cadente e, per di più (sebbene non lo fosse), un mendicante. Tutte le volte i loro occhi s’incontrarono, per allontanarsi subito; e mai ci fu tra loro uno scambio di saluti. Tutto era finito, e finito veramente.

Ma non è come con la farina, non basta spolverare per non veder più niente sui pantaloni.

La vita lascia sempre le sue tracce, tra gli interstizi dei sentimenti, nelle pieghe dei sogni, nei misteriosi percorsi della memoria, nell’estenuante bisogno di comprendere, comprendersi.

I turbamenti della giovinezza restano di lato, come testimoni a osservare adulto chi li coltivò, e la maturità recupera e restituisce nitore a ciò che sembrava impolverato o rinnegato o persino perduto.

Così, giunto quasi alla fine, nel 1953 (morirà nel 1957) in una clinica romana Saba inizia a scrivere, con entusiasmo, convinzione, con una forza interiore limitata purtroppo solo dalla malattia, questo romanzo autobiografico, e lo fa senza ipocrisia, senza imbarazzi: le parole esistono per esser dette, anche se volgari, crude. Ne è consapevole egli stesso, lo scrive in numerose lettere.

Quella a Lina del 30 maggio 1953, ad esempio: “Tutte le persone alle quali l’ho letto, Linuccia, Carlo Levi, Bollea e un giovane qui ricoverato, dicono che è la più bella cosa che io abbia scritta. (Anch’io lo credo). Disgraziatamente è impubblicabile, per una questione di linguaggio.”

In un’altra lettera, a Bruno Pincherle, specifica però (nel caso qualcuno mai gli proponesse di ammorbidire i termini): “Il linguaggio non è mutabile: il racconto è nato proprio da quello”.

Fortunatamente, anche se solo nel 1975, Ernesto vede finalmente la pubblicazione, ed è proprio quel linguaggio franco a rendercelo migliore, immediato, genuino, naturale, innocente (in-nŏcens, che non nuoce); a stemperarne, paradossalmente, ogni scabrosità.

Il valore di queste pagine si rivela ogni volta rinnovato e potente. Eppure (ne scriveva ancora Elsa Morante, e mai parole furono così sagge, e buone a valutare il peso di ogni forma di discriminazione e stupido giudizio) “è facile presagire i commenti miserevoli dai quali esse verranno accolte: ricevendo, ovviamente, da opposizioni di specie così bassa, una riconferma della loro qualità”.

 

 

 

Coperttina 1:

L’edizione del 1975

Copetina 2:

L’edizione del 1995