Essere Atticus Finch

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Pubblicato nel 1960, Il buio oltre la siepe riscuote un immediato e strepitoso successo, e nel 1961 vince il premio Pulitzer

di Luisella Pacco

 

Ho iniziato a pensare a questo romanzo all’indomani di uno dei più efferati e desolanti casi di cronaca degli ultimi tempi. Un bravo ragazzo, Willy Monteiro Duarte, dal sorriso aperto e gli occhi pieni di gioia, è stato massacrato di botte da giovinastri che non riesco a descrivere in modo civile.

Sono seguiti giorni di intenso turbamento. Ci siamo commossi, ci siamo indignati. Noi italiani siamo bravissimi a lasciarci trascinare dalle emozioni. Lo facciamo in totale buona fede, col cuore gonfio, le promesse, le fotografie condivise sui social, i cuoricini, le lacrime pronte e – non voglio dubitarne – sincere.

Peccato che s’asciughino presto, perché un’altra emozione a breve ci travolgerà facendoci dimenticare la precedente. Siamo fatti così, siamo fatti male.

Persino adesso, mentre scrivo, ho la sgradevole – paradossale – sensazione di essere giornalisticamente fuori tempo, come se le pochissime settimane passate dalla tragedia (avvenuta il sei di settembre) fossero già un lasso di tempo che non consente più né il cordoglio né la riflessione. Mi conforta il fatto di non essere una giornalista e di non dover inseguire la notizia né nient’altro se non il mio cuore.

Sono giorni che mi arrovello su questo articolo. Non viene come vorrei. Avrei voluto scrivere altro, scrivere meglio, ma credetemi, mi sento derubata delle parole. Non le trovo, o almeno non ne trovo di adeguate e degne. Forse comincio semplicemente a sentirne l’inefficacia, lo sterile vuoto (e io, che ho sempre creduto nell’incanto e nella potenza delle parole, mai avrei pensato di arrivare a dire una cosa simile).

Onestamente non so se ci sia ancora una speranza per questa nostra società misera e devastata. Per la prima volta nella mia vita, sono molto pessimista. Ma se qualcosa si può fare, percepisco nettamente che dovrà essere con l’esempio, non con le ciance di cui ci riempiamo la bocca.

E allora mi è venuto in mente questo romanzo… Il buio oltre la siepe.

L’autrice è Harper Lee (1926-2016). Nata a Monroeville in Alabama, dopo gli studi in legge lavora in una compagnia aerea. Fin da piccola è amica di Truman Capote ed è proprio lui a consigliarle di mettere per iscritto i suoi vividissimi ricordi dell’infanzia. Harper lascia l’impiego e si mette a scrivere. Nasce così To kill a mockingbird (Uccidere un usignolo), titolo originale assai più bello di quello poi scelto in Italia. Pubblicato nel 1960, riscuote un immediato e strepitoso successo, e nel 1961 vince il premio Pulitzer.

Nel 2007 Lee riceverà un’altissima onoreficenza statunitense, la Medaglia Presidenziale della Libertà. La motivazione dice così: “Ha influenzato il carattere del nostro paese in meglio. È stato un dono per il mondo intero. Come modello di buona scrittura e sensibilità umana questo libro verrà letto e studiato per sempre”.

Siamo a Maycomb, una cittadina di fantasia che chiaramente rievoca Monroeville, annoiata chiusa provinciale e razzista. La voce narrante è quella briosa ed esuberante di Jean Louise, detta Scout. Ha sei anni, un carattere impetuoso e indipendente, e spesso si comporta come un maschiaccio. Vive col fratello maggiore Jem e con il padre, l’avvocato Atticus Finch.

È con loro (“da tempo immemorabile”) anche la cuoca di colore Calpurnia, a tutti gli effetti parte della famiglia, amata rispettata e temuta come si ama si rispetta e si teme una madre giusta e severa.

Scout non ricorda la mamma, morta troppo presto. Mentre Jem sì, ne rammenta i tratti e ne sente la mancanza, talvolta. Un dolore improvviso, come una fitta, una nube che per un poco rannuvoli il suo cielo.

«Lui la ricordava benissimo, e aveva i capelli morbidi, gli occhi bruni e il viso ovale di lei. Certe volte nel corso di un giuoco, sospirava, poi prendeva su e se ne andava a giocare per conto suo dietro alla rimessa. Quando faceva così, mi guardavo bene dal dargli fastidio!»

L’infanzia potrebbe passare serenamente per questi due ragazzini, impegnati tra giochi amicizie e piccole grandi avventure nei dintorni di casa. Una su tutte: fantasticare sull’indecifrabile dirimpettaio che non esce mai e che per questo assurge a personaggio misterioso e temibile che li spaventa moltissimo. Lo hanno soprannominato “Boo”.

«Io e Jem non l’avevamo mai visto. La gente diceva che usciva nelle notti senza luna e che spiava dalle finestre. Quando a qualcuno gelavano le azalee in una nottata fredda, era perché lui ci aveva soffiato sopra. Un negro non si sarebbe mai sognato di passare davanti a casa Radley di notte, e benché il terreno della scuola confinasse col retro della proprietà dei Radley, una palla da baseball lanciata nel cortile dei Radley era una palla perduta e buona notte al secchio».

Ma una grave vicenda sconvolge Maycomb, distraendo i bambini dai giochi e traghettandoli invece a riflessioni più profonde e verso una consapevolezza più matura degli eventi e delle persone.

Il bracciante nero Tom Robinson viene accusato di stupro nei confronti di una ragazza bianca, Mayella Ewell. Atticus Finch, incaricato della difesa, ne prova incontrovertibilmente l’innocenza. Emerge infatti che le botte e la violenza subite da Mayella sono opera del padre, il brutale e ignorante Bob. La giuria però condanna ugualmente Tom. Cosa vale la parola di un “negro” nell’Alabama degli anni Trenta?

Scout e Jem assistono all’intero dibattimento. Atticus viene duramente disprezzato per aver permesso ai figli di stare nella balconata riservata ai neri, e soprattutto per averne difeso uno.

Anche dopo la condanna, l’avvocato – di animo forte e idealista – rimane convinto di poter rovesciare il destino del suo assistito col processo in appello. Ma Tom è così esausto e scoraggiato che un giorno, durante l’ora d’aria, tenta la fuga, venendo così ucciso a fucilate dalle guardie. Abbattuto, appunto, come un uccellino indifeso.

Bob Ewell intanto continua a covare un astioso livore verso Atticus, al punto che cerca di ucciderne i bambini. Jem e Scout vengono salvati proprio dallo psicolabile, diverso, bizzarro “Boo”, che per difenderli è costretto a uccidere Ewell.

Lo sceriffo Tate è perfettamente consapevole di come siano andate le cose ma, rivelando anche lui una certa sensibilità, per evitare a Radley lo stress e il clamore di un processo decide di archiviare il caso come un incidente.

Il romanzo si chiude con questa nuova scoperta per Scout e Jem: il malvagio Boo non solo non era pericoloso, ma era persino loro amico. Il pregiudizio nei suoi confronti era inconsistente e sbagliato.

Dopo la lunga, turbolenta giornata, mentre Jem dorme nell’altra stanza con un braccio rotto, la notte cala anche su Scout che vorrebbe ascoltare ancora una storia dalla voce del papà, ma casca dal sonno.

«Sentivo le sue mani tirare su la coperta fino al meno, rimboccandomela tutto attorno.

“Quasi tutti sono simpatici, Scout, quando finalmente si riesce a capirli”.

Spense la luce e tornò in camera di Jem: tutta la notte sarebbe rimasto con lui , e sarebbe stato ancora lì al suo risveglio, al mattino».

Questo è un romanzo molto noto anche a chi non l’abbia mai letto. Merito del film che ne è stato tratto nel 1962, con la regia di Robert Mulligan e un perfetto Gregory Peck. Il film ricevette otto nomination agli Oscar e ne vinse tre (uno appunto a Peck per la sua interpretazione dell’onesto e retto Atticus Finch) .

Sin troppo famoso, quindi, per farne un suggerimento di lettura per Il Ponte rosso. Eppure questa idea mi si imponeva ostinatamente. Perché?

Potrei dire: perché Willy mi ricordava un usignolo, una creatura bella e fragile, che nel mondo poteva portare solo del buono. Potrei dire: per lo sfondo razzista del suo brutale omicidio.

Ma no, la ragione è un’altra.

Di quella tristissima vicenda la cosa che più mi ha inorridita è la frase che i genitori degli assassini pare abbiano pronunciato: «Dopotutto era solo un extracomunitario», o qualcosa del genere (presumo con linguaggio ancora più gretto).

Aver tirato su dei figli che picchiano e uccidono, e tentare persino di giustificarli, significa aver fallito clamorosamente nel ruolo di essere umano e di cittadino ma soprattutto in quello di genitore.

Ecco, credo che sia stato per questo che Il buio oltre la siepe mi è venuto in mente: per la figura di un vero padre, un nobile padre, che insegna (anzi meglio, mostra con i suoi comportamenti) l’onestà, il rigore, la tolleranza, l’amicizia, l’impegno per ciò che è giusto.

Al di là di ogni altro aspetto (romanzo di formazione, romanzo sul tema del razzismo e più in generale del pregiudizio), questo libro spiega limpidamente cosa significhi essere un bravo genitore e quale sia la fortuna di esserne figli.

I figli di questo padre porteranno sempre dentro di sé un punto di riferimento, un faro nella notte.

I figli di questo padre non potranno essere né violenti né bulli né arroganti né razzisti.

I figli di questo padre avranno pensieri compassionevoli, gesti gentili e mani innocenti.

Più nulla di feroce potrebbe accadere in questo mondo se ciascuno di noi, con i figli che ha o non ha – semplicemente dinnanzi a chi ci osserva – cercasse di essere Atticus Finch.

 

 

 

Harpeer Lee

Il buio oltre la siepe

Feltrinelli, Milano 2019

  1. 350, euro 10,00