Etiche letterarie tra paradigma e paradosso

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di Fulvio Senardi

 

«Difesa o accusata, nascosta o esibita, l’immoralità della letteratura è insomma un tratto caratteristico della nostra storia culturale. Ammessa persino dagli scrittori è però sanzionata dalle istituzioni. […] Quel che bisognerebbe comprendere è proprio come grazie al suo ‘immoralismo’ la letteratura svolga una funzione ‘etica’ […]: un’opera immorale può essere un’opera eticamente impegnata se la trasgressione dei costumi accettati pone appunto la questione dei loro fondamenti, delle loro applicazioni storiche, del fine cui tendono e dei modi in cui agiscono». Questa lunga citazione dal saggio di Fabio Finotti L’immoralità etica della letteratura che chiude il volume Non date retta a me.- Etiche letterarie tra paradigma e paradosso (a cura di Cristina Benussi e Jacopo Berti, Mimesis editore, 2016, pp. 196, euro 18) rivela anche il senso di marcia del libro, ovvero la sua natura di sondaggio, trasversale alle epoche, ai generi e agli stili – ma interno alla lunga stagione di storia che potremmo chiamare la Modernità, nel senso kantiano di uno iato tra realtà e valori aperto dall’eclisse del sacro – mirato a individuare percorsi di uscita «dal solipsismo e dall’autoriflessività», alla ricerca, in narrativa e poesia, di una «funzione civile» (così Hanna Serkowska in una riflessione su Antonio Pascale, Come raccontare lo spirito sfranto dei tempi?, autore rappresentativo di una ‘letteratura di mezzo’ tra reportage, fiction e saggistica, in cui si può riconoscere il paradigma di quel “return of the real” che si contende con la “new italian epic” il ruolo di erede, dichiaratamente parricida, della pur effimera tradizione del postmoderno; oltre che fustigatore dei costumi di casa degli scrittori italiani, la cui categoria gli pare dividersi, non senza un basso continuo narcisistico, fra “romantici” e “apocalittici”, seguaci entrambi, pur da sponde remotissime, della Musa svigorita della rassegnazione).

In modo emblematico, il volume (che accosta e, per così dire, orienta al colloquio, dieci studiosi di generazioni diverse – ed è cosa buona -, alcuni noti e affermati, altri freschi di mestiere) è aperto da un lungo saggio di Cristina Benussi sul Romanzo italiano Otto/Novecentesco, quasi a individuare un paradigmatico locus delicti dove celebrano i propri fasti, e non solo in campo letterario, le collisioni e le collusioni tra ‘immoralismo’ ed ‘eticità’, per tornare all’antitesi di cui siamo partiti, simbolizzabili, senza troppo sforzo e con un filo di malizia sociologica, nelle costanti antropologiche tricolori del ‘principe’ e del ‘cortigiano’. L’originale messa a fuoco della studiosa triestina, che ha avuto un ampio e assai felice banco di prova nel volume del 1998 Scrittori di terra, di mare e di città. Romanzi italiani tra storia e mito, consente di individuare articolazioni prima di civiltà che di cultura (la terra, il mare, la città, lungo il filo rosso della patriarcalità, nella parabola che va dai codici ristretti di un’élite letterata fino alla semi-acculturazione scolastica della società di massa), le quali, nel variare anche radicale delle forme di comunicazione e della funzione stessa della parola letteraria, lasciano intravvedere la necessità, per una società del futuro aperta verso forme sicuramente inedite e probabilmente tumultuose di progresso, di “vigili storyteller capaci di organizzare su basi nuove un linguaggio, in senso lato, letterario dal respiro più ampio, connesso alle altre forme di cultura, disposte a fornire delle regole contro la violenza che non di rado invade invece i social network, creando incolpevoli capri espiatori da tutelare”.

Chiudendo il discorso sarà opportuno, anche come bussola per chi – e farà bene – intenda avvicinarsi a questo libro, indicare autori e temi dei saggi non citati. Dunque: Enrico Elli su Foscolo, Francesco Sielo su Montale e Pound, Luciano Currieri su Sciascia, Maria Rita Mastropaolo su Gesualdo Bufalino, Jacopo Berti su Primo Levi, Gianni Cimador su Pierluigi Cappello.