Eufemismi e altri inganni

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Assistiamo continuamente a casi di pubblicità ingannevole e di quella sua sottospecie in cui s’è ormai ridotta la comunicazione politica. Si usano concetti e linguaggi impropri e il più delle volte fuorvianti: parole che hanno smarrito il proprio senso o che mascherano una realtà diversa da quella che s’intende porre in evidenza.

È il caso, per dirne uno, del cartello d’imprese di alcune compagnie telefoniche che, tempo fa, ha deciso di proporre nella pubblicità l’importo di un canone riferito non più a un mese, ma a quattro settimane di utilizzo del servizio proposto. Si tratta di un’equivalenza soltanto apparente, che di fatto maschera un indiscriminato aumento delle tariffe in base al quale l’utente paga un tredicesimo canone in più ogni anno. Cosa aspettarsi del resto da aziende che proclamano che sono incluse nel canone “chiamate illimitate”, salvo poi scoprire che l’inclusione nel canone non comprende lo scatto alla risposta, per ciascuna delle quali sarà necessario corrispondere al gestore un diritto fisso?

Non molto diversa la comunicazione politica, che deve acquisire a basso costo dai cittadini un prodotto pregiato quale il consenso e per far ciò non si perita di utilizzare i più spregiudicati mezzucci dialettici per confondere i destinatari della propaganda. La cosa risale probabilmente alla notte dei tempi, ma ha certo accelerato il processo degenerativo la centralità della comunicazione televisiva come supporto. Nel lungo periodo di egemonia politica di uno che di televisione sapeva sicuramente il fatto suo, assistevamo centinaia di volte al giorno, ad esempio, alla tranquillizzante dizione “centrodestra” contrapposta a una per molti più inquietante “sinistra”, riferita agli avversari, implicitamente dipingendo di simpatie staliniste Romano Prodi o Enrico Letta.

Cambiato (si fa per dire) l’orientamento politico del governo, le cose non sono gran che migliorate: ne sono testimonianza proprio in questi giorni l’eufemismo “sanatoria” che ha insistentemente sostituito il termine “condono”, giustamente malvisto da chi le tasse e le multe le paga senza se e senza ma. Un tenace, quasi affettuoso attaccamento è poi riservato alla parola “flessibilità”, sia quanto era applicata ai lavoratori in uscita (licenziati, in altri termini), fino al superamento dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, per poi tornar utile nei recenti confronti con la UE per consentire al governo di ampliare più del consentito il già abnorme debito pubblico.

Altro artificio di successo, quello di definire provvedimenti di legge con un’aggettivazione che implica un giudizio di valore, ovviamente positivo. Tipico esempio: “la buona scuola”. Chi mai oserebbe proporre, in opposizione a una legge così definita, una “cattiva scuola”?

Il capolavoro, in questo senso, è la formulazione del quesito referendario sulle modifiche alla Costituzione, che ne mette in luce soltanto gli elementi prevedibilmente valutati con favore dall’elettore, al punto che il quesito sembra più un’interrogazione retorica che l’autentica richiesta di un parere.

Se invece di chiedere l’assenso al “superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL eccetera” si fosse chiesto all’elettore se approvasse che l’elezione dei senatori non fosse più diretta, ma venisse riservata ai Consigli regionali, che ai senatori così eletti venisse concessa l’immunità parlamentare, che per le leggi d’iniziativa popolare sia triplicato il numero delle firme necessarie, da 50.000 a 150.000 eccetera, forse qualche scostamento nei risultati sarebbe prevedibile.

Può essere che però si tratti di furbizie veniali, nel Paese di Bertoldo.

Quanto a noi, nel nostro piccolo, stiamo pensando di modificare il titolo di questa rubrica, che forse, dal prossimo numero, si chiamerà “Il bellissimo editoriale”.