Picconate sulla storia. Ieri, oggi, forse domani

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Trieste neppure sa quel che possiede. E scorda anche il passato più buio

di Roberto Curci

 

C’era una volta, a Trieste, Villa Lazarovich, dove per una mezza dozzina d’anni – a metà dell’Ottocento e prima di finir male – visse Massimiliano d’Asburgo: edificio fatto costruire nel 1820 da un Cassis Faraone e reso via via più articolato e sontuoso, nonché ingentilito da un giardino altrettanto prezioso, grazie alla nota passione dell’arciduca per quelle importazioni e sperimentazioni botaniche che si sarebbero espresse con magnificenza (mai assaporata dall’artefice) nel gran parco di Miramar.

Fu a Villa Lazarovich che, nei primi anni Sessanta del secolo passato, abitava Pier Antonio Quarantotti Gambini. Sicché si può ben comprendere con quanta personalizzata passione lo scrittore si battesse pubblicamente contro il progetto di abbattere lo storico palazzo per far posto a una bella schiera di eleganti palazzine per residenti dal cospicuo potere d’acquisto. Invano. Tutto ciò che ottenne (era il 1962) fu la preservazione dell’avancorpo, a tutt’oggi visibile: una sorta di foglia di fico per un’operazione di macelleria non solo edilizia, ma pure storico-artistica.

Nihil sub Sole novi. Quante e quante residenze grondanti storia e cultura sono state sacrificate sull’altare di una prassi speculativa cui nulla importa di un passato che ci si ostina a considerare remoto ancorché sia, spesso, soltanto prossimo (e difatti come passatista viene bollato chi ha a cuore tali faccende, incluso – s’intende – chi scrive queste righe). Al solo elencare gli edifici che si sarebbero meritati un filino di rispetto (e di tutela) vien da alzare subito bandiera bianca. Un pensiero reverente vada almeno all’ex Villa Economo (chiamiamola pure ex, benché rechi essa pure la sua bella foglia di fico), alla sommità di San Vito, già di proprietà Hepburn e poi Gossleth. E con uguale, postumo dispiacere si rammenti la villa, sul colle di Chiadino (chiamata Gasteiger, poi Schroeder e infine Villa Francesca), dove visse l’esimio scrittore e console Charles Lever.

Ma c’è un’altra vittima designata in lista d’attesa, e non si ha sentore che qualcuno si interessi del suo destino, se non coloro che, poco tempo addietro, l’hanno acquistata. Si tratta di Villa Fontana, poi Sordina, poi Economo, e quindi Villa Ermione, ben infrattata al principio della via di Romagna, di non eccelsa caratura architettonica ma legata strettamente alle vicende della ramificata famiglia Economo e dello scrittore francese Paul Morand e – soprattutto – circondata da un parco lussureggiante, e dunque particolarmente appetitoso per chi, grazie a un malaugurato fallimento altrui e a un successivo, accorto acquisto, ci ha messo sopra occhi, mani, quattrini e progetti.

Che Trieste e chi ne regge le sorti non sia propriamente molto attenta a quanto possiede (e magari neppure sa di possedere) lo confermano, del resto, non solo le demolizioni passate, presenti e future. Palazzo Carciotti e la Rotonda Pancera, tanto per citare due emblemi del Neoclassico triestino, sono in penosa attesa di conoscere il rispettivo destino, senza che la loro sorte acchiappi l’attenzione del colto e dell’inclita più di quanto, per dire, abbiano fatto gli arredi della Pasticceria Pirona, o – perché no? – quelli, ugualmente “d’epoca” e rispettabilissimi del Caffè Torinese o della Calzoleria Martini.

Ma la disattenzione endemica riservata a edifici-simbolo, sia pure privi di qualunque valenza artistica o architettonica, sacrificati alle esigenze del mercato edilizio in una città che sta scollinando sotto la quota-limite dei 200 mila residenti, si comprende in maniera perfino dolorosa osservando i “lavori in corso” all’inizio di via Cologna, lato sinistro. Che sul colle di San Vito, al posto della cosiddetta Villa Triste, sorgano da decenni graziose palazzine che ben giustificano il toponimo di Bellosguardo in cui s’inseriscono, non suscita affatto scandalo, ammesso che mai l’abbia suscitato. Ma che, all’interno dell’edificio in cui dal 1942 operò l’Ispettorato speciale di Pubblica Sicurezza per la Venezia Giulia, alias la banda di sadici aguzzini capeggiata da Gaetano Collotti, si crei un falansterio di appartamenti bi- e trilocali per famigliole ignare del sangue e della sofferenza di cui quello spazio è (e continuerà a essere) irreversibilmente intriso, suona davvero come uno schiaffo morale a chi, in questa città, mantiene ancora un briciolo di memoria storica e di coscienza civile.

(A proposito, della Risiera che facciamo? Ah, no: quella è Monumento Nazionale).

 

Dida:

 

Quel che rimane di Villa Economo