Famiglie da codice penale

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Il Clan, di Pablo Trapero e Un padre, una figlia, di Cristian Mungiu

di Gianfranco Sodomaco

 

È questa la distribuzione cinematografica in Italia: il film argentino Il clan, di Pablo Trapero, Leone d’argento alla Mostra del Cinema di Venezia 2015, esce nelle sale esattamente un anno dopo, quasi contemporaneamente all’apertura della Mostra 2016. È un caso, è voluto? Mah. Peccato perché è un film importante, perché è una riflessione, sempre attuale, sull’ ‘eterno fascismo’ che una nazione vive quando il potere cade nelle mani di uno o più dittatori, quando la grande borghesia trae enormi vantaggi da questa situazione e le libertà democratiche vanno a farsi friggere. Il film, ricchissimo di spunti narrativi, merita una descrizione particolareggiata degli avvenimenti e, da subito, i complimenti al regista Trapero che in questa vicenda vera ha saputo vedere tante, se non tutte, le conseguenze di una situazione storica che è andata avanti per almeno sette anni, dal ’75 al 1982. Vediamo dunque la storia.

La famiglia Puccio è formata dal padre Arquimedes (il motore ‘diabolico’ di tutti gli accadimenti, interpretato da un acclamato attore argentino: Guillermo Francella), la madre insegnante, complice fino alla fine, il figlio Alex, campione di rugby complice fino ad un certo punto, da due figlie, ignare, e da altri due figli (uno, appena tornato dalla Nuova Zelanda, prenderà il posto di Alex, l’altro invece prenderà le distanze dal padre e scapperà da casa). Che cosa fa la famiglia Puccio, oltre a gestire un negozio di articoli sportivi? Letteralmente: organizza sequestri, tiene in casa i rapiti per ottenere il riscatto in dollari e poi li ammazza. Perché fa questo? Da dove nasce questa incredibile, pazzesca attività, questa ‘crime story’? Dalla schizofrenica mente di Arquimedes che, spietato e paterno, gelido e affettuoso al tempo stesso, mantiene antichi rapporti con i servizi segreti delle varie dittature ed è da queste protetto. Ma anche dalla banalità del male, o se volete dal male della banalità dei genitori, del figlio Alex e poi del fratello sostitutivo, coinvolti nel malaffare. Come si chiude questa storia? Inevitabilmente, col cambiamento della direzione politica (al governo va il radicale Raul Alfonsin) scemano le protezioni e arriva il giorno in cui in casa Puccio arriva la polizia che ‘imbraga’ tutta la famiglia e la porta in prigione. Durante la trasferta Alex tenta il suicidio ma sopravvive, Archimedes, dichiaratosi sempre innocente, sarà condannato (in carcere studierà e si laureerà in Giurisprudenza), con Alex, all’ergastolo, l’altro figlio a pochi anni, la moglie e le due figlie rilasciate. Alex è morto nel 2008, ventitre anni dopo. Tutti questi dati il regista ce li fornisce alla fine del film con dei sottotitoli ‘raggelanti’. Che dire? Il film è ben diretto, incalzante, e il regista ha scelto di commentare musicalmente con canzoni pop e rock americane creando un effetto, appunto, alienante, visto che alienati sono un po’ tutti i protagonisti di questa (in)credibile vicenda. Col senno del poi vien da pensare a una storia, analoga non uguale, che ha toccato la nostra regione, in particolare la località Fiumicello, da dove proveniva Giulio Regeni, giovane ricercatore che ha trovato la morte in Egitto, in circostanze misteriose ma verosimilmente simili a quelle descritte dal film: sicuramente rapito, seviziato e ucciso dai servizi segreti di un paese non proprio democratico e che già si è fatto notare, a livello mondiale, per la gestione autoritaria e becera del potere politico.

Veniamo a Un padre, una figlia, del rumeno Cristian Mungiu. Ricordo ancora quanto mi era piaciuto, era il 2007, il suo film 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni (Palma d’Oro al Festival di Cannes). Il film raccontava la storia di due amiche che, contro la legge rumena che considerava l’aborto illegale, decidono l’una di abortire, l’altra di aiutarla a farlo. Ce la fanno, ma con l’aiuto di un medico corrotto e corruttore e poi hanno il problema di dove ‘collocare’ il feto. Mungiu, 9 anni dopo (c’è stato un altro piccolo capolavoro, Oltre le colline (2012), anche qui storia di due amiche, presa dalla cronaca e da un successivo libro-inchiesta: una laica e una suora che, cresciute insieme in un orfanatrofio, tendenzialmente lesbiche, decidono ad un certo punto di lasciare la comunità di suore e fuggire in Germania per cercare un lavoro. Ma il padre priore, autoritario e corrotto, fa passare la suora per una posseduta dal demonio e tutto finisce in tragedia), con Un padre, una figlia (migliore regia al Festival di Cannes), sempre una coproduzione franco-belga-rumena, affronta, di fatto lo stesso problema: l’illegalità corruttiva del suo paese che, dopo il comunismo di Ceausecu, ha peggiorato ulteriormente la sua situazione sociale e morale.

Vediamo la storia. Romeo, medico di una piccola città, è molto legato alla figlia Eliza. Eliza vuole, dopo l’esame di maturità, frequentare l’Università di Cambridge. La ragazza, il giorno prima dell’esame, subisce un’aggressione e, rimasta traumatizzata, come il padre comprende subito, rischia di non superare l’esame. Che fare? Ricorrere a un politico locale che possa intervenire sulla commissione d’esame e risolvere il problema. Il medico è disponibile ma è in attesa di essere trapiantato al fegato e questa sua necessità inizia a dar vita a una serie di imbrogli da cui non se ne uscirà. Ne viene fuori un ‘ritratto di provincia’, metafora del fallimento di un’intera generazione.

Per Mungiu etica ed estetica s’identificano, egli non emette giudizi: ogni inquadratura è calibrata al millimetro, sia nelle frequenti scene di dialogo (sempre lo stesso campo, nessun campo/controcampo) sia nelle inquadrature fisse. L’uso dello schermo panoramico situa la vicenda in quartieri popolari e borghesi di uguale squallore, indagati da una macchina da presa a mano che bracca i personaggi mentre piccoli episodi (un vetro rotto iniziale, chi è stato?, l’investimento di un cane) rendono ancora più inquietante l’atmosfera. Insomma, il realismo estremo di Mungiu diventa un modo per trasmettere angoscia, angoscia che a poco a poco diventa, nel protagonista (il bravo Adrian Titieni), una perdita totale di moralità. Brava anche la giovane Maria Dràgus, nel ruolo di Eliza. Eliza, dopo il ‘paterno’ polverone sollevato da Romeo, rinuncerà al viaggio in Inghilterra. Fallimento totale.