Finalmente un Kafka sorridente

| | | | | |

di Francesca Schillaci

 

La maggior parte di noi se pensa a Franz Kafka lo ricorda come uno scrittore inquietante, devastato dalla sua stessa esistenza, un eletto che esalta la vacuità di tutta l’umanità. Pochi sono i testi che raccontano un Kafka diverso dall’immaginario ormai designato, senza però negarne mai l’evidente genio. Nell’opera Franz Kafka ovvero: (Vita Activa Nuova, in libreria dal 20 settembre) di Claudio Grisancich e Francesco Carbone, ci viene consegnata finalmente l’immagine di un Kafka che ride; nelle parole del primo e nei disegni dell’altro dei due autori, la tragicità troppo spesso esaltata dello scrittore boemo è ridimensionata nel gesto artistico della parola e del segno.

Grisancich racconta che durante la pandemia aveva ripreso in mano tutte le opere dello scrittore praghese insieme a quelle di Max Brod in un tentativo di risposta ad un richiamo. Kafka l’aveva sempre accompagnato come un amico, letto in adolescenza e per sempre consacrato ad un posto d’eccellenza nella sua memoria di poeta e di attento lettore. Nell’immergersi nuovamente nelle strade praghesi che Kafka tanto frequentemente percorreva, nei meandri del Castello e nella follia del Processo, Grisancich ha sentito famigliare un suono che si è fatto simbolo nella sua parola scritta. Così, ha iniziato a inviare dei messaggi vocali a Carbone nei quali leggeva qualche frammento buttato giù dopo le sue letture: nel giro di pochissimo tempo quel suono che si annunciava dalla voce di Grisancich si è fatto segno dalle mani di Carbone.

«Franz Kafka ovvero: è un esercizio di ammirazione – dice Carbone – entrambi l’abbiamo amato da sempre ed è stato inevitabile, direi naturale, inglobarlo insieme in questo lavoro». Sono sessantatre i frammenti raccolti dai due autori, che consegnano al lettore di qualunque esperienza letteraria un Kafka nella sua ordinarietà, in una quotidianità sapientemente creata grazie all’attenzione meticolosa del dettaglio.

Come delle istantanee, ogni pagina si rivela un esercizio antiaccademico, un Kafka vivibile nella sua semplicità, scardinato da tutte le complessissime teorie che gli sono state attribuite e che sicuramente ha posseduto nella sua genialità, ma che hanno distratto a lungo i lettori da una visione più libera e a tratti più intima della sua realtà. Grisancich e Carbone lo raccontano come un amico di viaggio, un “mulòn” (detto alla triestina), quel vecchio compagno di sbronze, di amori e di risate che nessuno ha mai raccontato. A tratti incontriamo un Kafka burlone, goffo nel perdere continuamente il suo cappello, onirico, sognatore, ma anche cinico, disgustato. Innamorato. In sintesi un uomo, prima che un genio. I due autori hanno liberato Kafka raccontando il “loro Kafka”: un Kafka che ride.

«Kafka sono io» afferma Grisancich con gentilezza «nel senso che l’ho interiorizzato e in lui mi sono specchiato. Questo processo di identificazione mi ha portato spontaneamente a parlare come se fosse lui a farlo, perché lo vedevo, lo sentivo, lo ascoltavo». Molti sono gli elementi classici che richiamano la biografia kafkiana come Praga, Milena, il rapporto complesso con la sessualità, la difficile relazione col padre. Ma nessuno di questi dettagli è argomentato in chiave tragica, bensì inevitabile. Così com’è. Quindi sfogliando il libro e partendo da qualunque punto ci piaccia di più, incontriamo un Kafka che fa l’amore, un Kafka in osteria che racconta storie, un Kafka che sogna, un Kafka che scrive. Un Kafka in bilico su una scala, pronto a spiccare chissà quale volo a noi non concesso, a ricordarci che in fondo in molti suoi lavori nessuno può affermare con certezza che si trattasse di lui, perché di lui c’era solo l’iniziale del cognome: Kappa. Ed è così che Grisancich lo chiama nei suoi scritti: Kappa.

Questo è un libro che inizia ma non finisce mai; è la fine di un processo durato quasi un secolo dalla sua morte per liberarlo finalmente nei vicoli di un castello a cui tanto voleva appartenere senza che nessuno gli dicesse come fare; è questo libro il castello stesso con mille entrate e nessuna uscita. Una forma di accettazione che Kafka aveva capito e a suo modo esaltato.

I simboli non mancano a ricordare anche la profonda ricerca spirituale che “l’amico Kafka” ha percorso in un momento della sua vita, nella sua incredibile capacità di porre domande senza ricevere quasi mai delle risposte. Il corvo è uno degli animali che incontriamo più spesso per un gioco di appartenenza al suo cognome (Kafka significa cornacchia), così come la bombetta, un simbolo burlesco, a tratti volutamente chapliniano che Kafka perde sempre, quasi fosse «freudianamente il centro dei suoi atti mancati», dice ancora Carbone. Grisancich ci dona invece il simbolo delle due leonesse, rispettivamente riferite alla scrittura e alla famiglia, coloro che lo divoravano.

Il femminile è intriso di poeticità che ricorda sicuramente il dolore dello scrittore nelle sue relazioni complesse, ma allo stesso tempo si risolve nell’inevitabilità del vivere quotidiano.

Attraverso questo autentico atto di sublimazione, Grisancich e Carbone hanno regalato una nuova esistenza al loro scrittore del cuore, prendendolo per mano e facendogli fare le capriole dentro la sua stessa vita riflessa dagli occhi degli autori.

Poco importa cosa sia vero o verosimile, Kafka rivive.

O meglio, dovrei dire, finalmente Kafka ride.

 

Claudio Grisancich

Francesco Carbone

Franz Kafka ovvero:

introduzione di

Francesco Carbone

postfazione di Laura Ricci

Vita Activa Nuova, Trieste 2023

  1. 160, euro 25,00