Grado, a teatro nella storia

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di Walter Chiereghin

 

Attiva da oltre trent’anni, l’Associazione “Grado Teatro”, attraverso l’organizzazione di letture e messe in scena di prose teatrali, contribuisce a tenere vivo l’interesse per la parlata gradese valendosi di un attore e direttore artistico quale Tullio Svettini e, oltre a ciò, dei testi di uno straordinario scrittore e poeta dialettale quale Giovanni Marchesan “Stiata”, classe 1933, autentica versatile voce di Grado, che si accorda tanto su accenti lirici che drammaturgici, e in questi ultimi ritrovando a volte una vivace vena comica, altre volte un interesse non superficiale per la storia, in particolare per quella dell’Isola che gli ha dato i natali.

Le nuove Edizioni della Laguna hanno dato recentemente alle stampe due agili volumetti, entrambi dovuti alla fresca inventiva di Marchesan ed entrambi basati su una preesistente ricerca storica.

Con Pre’Santo Meriato il lettore (o lo spettatore) viene introdotto in una storia ambientata negli anni della Controriforma, per seguire attraverso un monologo del protagonista le vicende biografiche di un prete, per molti anni parroco di Grado, recluso in una cella a Palma (Palmanova), senza soverchie speranze di fine pena, e difatti il sacerdote, effettivamente esistito, morì in detenzione nel 1632, l’anno stesso in cui fu arrestato.

Ispirato dalle notizie tratte da una tesi di laurea (Università di Trieste, A.A. 1976, laureanda Mariagrazia Degrassi), la biografia del religioso, affidata a un suo monologo dialettale, è ripercorsa nelle sue fasi cruciali, dal seminario a Udine, alla quarantennale missione nell’isola natale, alle dicerie sul suo conto, ai problematici rapporti col patriarcato di Venezia, fino alla pretesa calunnia di aver venduto la preziosa reliquia di una spina della corona posata per irrisione sul capo di Cristo. Ma la prosa di Marchesan non si ferma certo alla ricostruzione della vita dello sfortunato ecclesiastico. L’occasione che gli si presenta è funzionale a una sua ricostruzione, per quanto succinta, del clima culturale seguito al concilio di Trento e varie altre descrizioni della vita popolare a Grado che, per quanto brevi, risultano di grande efficacia narrativa. Potentissima, ad esempio, la descrizione della peste, redatta con toni di acuminato realismo e riassunta alla fine in un’amara considerazione: «La Pesta… la Pesta! Maledissiòn de Dio la xe, revòlgesse a San Bastiàn e a San Roco serve pre l’anema sora duto… poco pel corpo… e i miraculi no i vièn cô i se vôl… ma quando vôl i nostri Santi…» (p. 19). Chi parla non è un raffinato teologo, né un asceta ieratico, ma un uomo del popolo, o almeno abituato a vivere in mezzo al suo popolo, tanto in chiesa che all’osteria, dove si recava col pretesto di avvicinare chi in chiesa non ci andava mai. In Marchesan, l’uso del dialetto è funzionale anche – direi soprattutto – a segnare una differenza anche linguistica tra una cultura ”alta” dei signori, della burocrazia e del potere, e un sentire popolare consapevole delle differenze di valutazione di ogni singolo accadimento, quasi sempre determinato dalla sopraffazione dei potenti ai danni dei poveri.

Tale coincidenza della lingua con la realtà fatta di inconciliabili visioni della realtà tra coloro che il potere lo esercitano e quelli che invece lo subiscono, patendone le conseguenze anche drammatiche, è argomento che percorre per intero l’altro testo di Marchesan, Il Barbaro, la cui narrazione affonda nell’intero periodo della Grande guerra, vissuto dalla popolazione dell’isola. Anche in questo caso il testo letterario affonda le proprie radici in testi saggistici, raccolti nel volume Grado 1914-1919, memorie e documenti, curato da Camillo Medeot, politico e storico lungamente attivo nell’Isontino.

Anche in questo caso, l’uso della parlata popolare gradese risulta funzionale ad ancorare la narrazione a un ben determinato interlocutore, portatore di una saggezza rassegnata ma vivacemente ironica, quando non amaramente sarcastica, nei confronti del potere, di chi lo esercita e dalla sua posizione privilegiata propala una visione della realtà antitetica a quella dei semplici e disarmati succubi di situazioni, come quelle della guerra, drammatiche o tragiche addirittura.

La vicenda narrata è riassunta nelle prime due pagine del testo teatrale: «Il barbaro scalpellava una lapide, ma non arrestava il corso della storia. Grado che anche nei giorni bui con incrollabile fede guardava alla stella d’Italia come un lume di giustizia e libertà riscolpisce con più fiero orgoglio e più forte gioia le grandi date della prima liberazione e della vittoria XXVI maggio 1915 – III novembre 1918». In quest’iscrizione, che il lettore avrà la compiacenza d’immaginare marmorea e abbondante di caratteri maiuscoli, è condensato il sunto delle vicende del paese lagunare durante lo svolgimento del primo conflitto mondiale, quando nelle lievi oscillazioni della linea del fronte l’isola fu alternativamente italiana (lapide di saluto dei bersaglieri che l’occuparono dopo il ripiegamento austroungarico dei primi giorni di guerra), poi rioccupata dagli austriaci dopo la rotta italiana di Caporetto e infine ripresa dalle truppe italiane nelle ultime ore del conflitto, allorché, come raccontò Armando Diaz, «I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza».

A contrastare la vuota retorica di lapidi, collocate, rimosse e ricollocate, di iscrizioni e di bollettini di guerra trionfalistici, anche qui la prosa di Marchesan si affida alle considerazioni e alle narrazioni del popolo minuto, così che ad esempio, il commento del contenuto di quella lapide risulta essere questo: «Il barbaro scalpellava una lapide!… sì… al barbaro… al barbaro… cô i ha spacào una lapide i’vemo dito barbaro… quando che i ne ha fato alberghi… favriche de pesse e un reparo vero che ne vanti ’l mar… quela volta no gera al barbaro… alora?… me sa che al ultimo barbaro dopo de Atila a qua son mè… mè…

“Io sono il barbaro che scalpellava la lapide!”… quel povero muradòr che ’l Comun i ha dao ’l ordine de tirà via quela lapida ara… Calcolo che assai poco lavor al ’varà soto la nova patria».

Il testo, dopo quest’introduzione, percorre su questo registro la storia del primo conflitto mondiale spiata dall’osservatorio dell’isola nella laguna, ove un’idea della guerra, che era quella degli stati maggiori, dei dannunziani, delle loro maestà regie o imperiali che fosserovenute in visita, dei retori dell’una e dell’altra parte, si scontrava con quella dei poveri cristi che la guerra invece dovevano subirla loro malgrado, pagandola con l’insicurezza, con la fame, coi soprusi patiti dagli occupanti, coi saccheggi, quando non anche con le ferite le mutilazioni o la vita stessa abbandonata sui campi di battaglia, vestendo, in maniera un po’ casuale, una o l’altra uniforme.

Seguendo il corso degli eventi in senso cronologico, il testo di Marchesan si sofferma su alcuni singoli episodi, probabilmente confortato dai saggi storici riguardo gli eventi, ma anche, considerata la sua bella età, da storie che avrà sentito narrare fin negli anni della sua infanzia dalla viva voce di chi le aveva vissute o patite sulla propria pelle; l’autore non è certo equidistante tra tali due ambiti, come del resto afferma implicitamente egli stesso fin dalla prefazione: «Ma la storia con chi sta?

Ho letto – non ricordo dove – la storia sta sempre dalla parte di chi la racconta. In questo lavoro, la storia, con tanta ironia, la racconta la gente».