Fulvio Roiter: Venezia, ma non solo

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La sua prima grande retrospettiva a due anni dalla morte ai Tre Oci di Venezia

di Michele De Luca

 

Di lui ebbe a scrivere Alberto Moravia: “Roiter è un fotografo che giustifica la mia idea che la fotografia quanto più è bella tanto più è misteriosa”. E così Fulvio Roiter (Meolo, Venezia, 1926 – Venezia, 2016) pensava il suo lavoro: “La fotografia è il linguaggio del nostro tempo, non potrebbe esistere un evento senza l’immagine. E noi fotografi siamo gli interpreti, i narratori speciali dotati di quella sensibilità che ci permette con una sola immagine di poter immortalare l’essenza del fatto. Io fotografo per emozionare, per trasmettere tutto quello che ho dentro”.

A due anni dalla scomparsa, una grande retrospettiva a Venezia, la città la cui immagine più di ogni altro fotografo ha legato al proprio nome, lo ricorda e lo celebra nel tempio veneziano della fotografia, la civettuola Casa dei Tre Oci alla Giudecca (semplicemente splendido il catalogo edito da Marsilio). L’esposizione, curata da Denis Curti, resa possibile grazie al prezioso contributo della moglie “Lou” Embo, fa emergere attraverso duecento foto, la maggior parte vintage, tutta l’ampiezza e l’internazionalità del lavoro di Fulvio Roiter, collocandolo tra i fotografi più significativi dei nostri giorni; partendo dalle origini e dal caso che hanno determinato i suoi primi approcci alla fotografia, nel pieno della stagione neorealista, il percorso racconta gli immaginari inediti e stupefacenti che rappresentano Venezia e la laguna, ma non solo.

“Se dovessi dare dei consigli a chi si occupa di fotografia, come prima cosa direi di non lasciarsi abbagliare dal materiale … Quello che più conta è l’esperienza fotografica. Il miglior apparecchio non è di nessuna utilità fino al momento in cui l’immagine nasce nel cervello. È questo il punto di partenza”: così scriveva in uno dei suoi più noti libri fotografici (Laguna, Magnus Edizioni, 1978).È naturale che nel rievocare Roiter ne venga sottolineata l’ inscindibilità del suo nome dalla amatissima città lagunare, certamente, specie negli ultimi quattro decenni, protagonista per eccellenza delle sue opere. La mostra veneziana ha ora il vero merito di far riemergere anche quanto da lui prodotto in precedenza, a partire cioè dalla seconda metà degli anni ’40, che lo rivelarono al palcoscenico internazionale come uno dei più grandi talenti dell’obiettivo; come ha scritto Leonello Bertolucci (I grandi fotografi, Milano 1982), le sue sono “foto in bianconero, delicatissime, elegantissime nella loro apparente semplicità, composizioni da pelle d’oca, raffinatezza, gusto, equilibrio e originalità. Gioielli buoni anche per gli occhi più esigenti”. Un bianco e nero – come fa notare il curatore della mostra (può apparire contraddizione, ma non è) – “comunque aspro, contrastato, ruvido. Un desiderio di raccontare il mondo attraverso un attrito costante, senza mediazione e senza menzogne”.

Che comunque il suo lavoro fosse intrinsecamente legato alla sua città è chiaro fin dai suoi esordi, quando la pubblicazione di Venise à fleur d’eau, nel 1954, dopo aver aderito al circolo La Gondola fondato da Paolo Monti, lo rivelò tra i nostri grandi fotografi come quello che forse ha più ha contribuito a diffondere nel mondo una certa immagine (a colori) poetica e accattivante della città in cui ha vissuto, ma anche in genere del nostro Bel Paese. Roiter è stato prima di tutto un maestro del reportage di viaggio con le sue strepitose immagini in bianco e nero: prima ancora di Venezia era venuta la Sicilia, l’Umbria di San Francesco che gli fruttò il premio Nadar nel 1956, a soli trent’anni; e poi il Brasile, la Persia,il Libano, l’Andalusia, il Belgio, la Turchia, il Messico, la Spagna, l’Irlanda, la Louisiana, la Tunisia, lo Zaire e l’Africa equatoriale, con le immagini icona dei villaggi della Costa d’Avorio, le danze rituali dei Watussi e i pigmei. Senza dimenticare la sua partecipazione – fondamentale – al Gruppo Friulano per una Nuova Fotografia, nel decennio 1655 – 65, animato da Italo Zannier, che lo stesso rievocò nel prezioso volume Neorealismo e fotografia edito nel 1987 dalla udinese casa editrice Art&. Gli inizi, infatti, del suo forte legame con la fotografia coincidono con il pieno della stagione neorealista. Da questo irripetibile movimento culturale, che all’epoca influenzava oltre alla fotografia anche il cinema e la letteratura, Roiter fa propria la capacità di coniugare la finezza compositiva con una forte curiosità nei confronti della vita, nel piccolo mondo della sua città così come in luoghi e paesi lontani e spesso difficilmente raggiungibili.

L’allestimento si arricchisce di videoproiezioni, ingrandimenti spettacolari e una ventina di libri originali, che, oltre a visualizzare in pagina l’opera di Roiter, restituiscono anche la vastità di contributi critici dei tanti autori che hanno scritto sul suo lavoro, tra cui Andrea Zanzotto, Italo Zannier, Ignazio Roiter, Gian Antonio Stella, Roberto Mutti, Stenio Solinas, Fulco Pratesi. Non manca il breve ma intenso ricordo della moglie Lou, riferito a quel primo incontro in Belgio, che fu la nascita di un rapporto umano e professionale lungo quarant’anni. Contenitore e veicolo ideale dell’opera artistica di Fulvio Roiter è stato infatti, sin dal principio, il libro fotografico. E la completa dedizione verso di esso ha portato l’autore a ricevere numerosissimi e importanti riconoscimenti come il prestigioso Premio Nadar, ottenuto nel 1956, con il libro Umbria. Terra di San Francesco, e il Grand Prix a Les Rencontres de la Photographie d’Arles, nel 1978, con Essere Venezia.

Lo ricordiamo con quello che lui stesso pensava del suo lavoro: “La fotografia è il linguaggio del nostro tempo, non potrebbe esistere un evento senza l’immagine. E noi fotografi siamo gli interpreti, i narratori speciali dotati di quella sensibilità che ci permette con una sola immagine di poter immortalare l’essenza del fatto. Io fotografo per emozionare, per trasmettere tutto quello che ho dentro”. E ancora, per come più volte egli abbia rivendicato l’autonomia estetica della fotografia: “Fotografare significa creare delle immagini che, staccate dalla realtà da cui trassero origine, mostrino nel breve spazio della loro superficie una realtà nuova conclusa nei limiti dell’inquadratura”.