Gianni Maran porta a Roma Biagio Marin

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In mostra al Palazzo Ferrajoli di Roma

La pittura di Gianni Maran è fatta di finestre aperte sugli abissi mediterranei

di Enzo Santese

 

La regione Friuli Venezia Giulia, nella sua sede di rappresentanza di Roma, Palazzo Ferrajoli, ospita dal 16 marzo la mostra “Semo una carne sola” dedicata a uno dei suoi artisti più significativi, Gianni Maran di Grado, impegnato nel giorno dell’inaugurazione nella lettura di alcuni testi di Biagio Marin (1891-1985).

Lo scenario contemporaneo è talmente complesso e stratificato nelle sue susseguenti contaminazioni che i luoghi, le cose, le persone, rischiano spesso di smarrire le connotazioni di nascita assumendo i tratti di diversità omologanti, e tale fermento può avere riflessi considerevoli sulle espressioni della creatività, sull’arte e sulla letteratura. Grado, pur essendo isola vicina alla costa, è come se fosse separata da un mare infinito, capace di custodire da sempre peculiarità che trovano il loro momento di plastica evidenza nella poesia di Biagio Marin. Questa mantiene nei decenni una propria immediata riconoscibilità di appartenenza alla terra d’origine e all’autore, non solo perché è in dialetto, ma perché è capace di vibrazioni significanti che alla natura e alla storia dell’isola conducono anche quando evocano situazioni emotive e tratti psicologici percettibili in ogni dove. Per Gianni Maran, nato a Grado come il poeta che per l’isola e per il suo mare ha concepito le liriche più intense, l’Adriatico è l’elemento che unisce diverse connotazioni della fisicità e della storia. La potenza delle correnti, la forza dell’acqua, il brulicare di vite nella fluidità della sua sostanza, il carico di mistero che racchiude anche per l’uomo di oggi, sono temi che confluiscono nella straordinaria combinazione di poesia e narrazione, di evocazione e fantasia, di aderenza alla realtà e d’immersione nel mito.

Il nucleo centrale che muove la poetica non può che essere il mare, inteso come quel mondo di presenze reali, giacimento di misteri inesplorati, scrigno di potenzialità vitali per l’uomo e di peregrinazioni fantastiche nell’universo del possibile. D’altro canto, l’origine gradese è molto più che respirare l’aria di salsedine e scrutare orizzonti lontani, significa dare corpo a tutte quelle sensazioni che Biagio Marin sapeva “costruire” con i versi di un dialetto tanto particolare quanto musicale. Per molto tempo la pittura di Gianni Maran è fatta di finestre aperte sugli abissi mediterranei, dove l’occhio dell’artista vede scorrere pesci che disegnano teorie ed evoluzioni geometriche, nelle quali sono “nascosti” racconti popolari e mitologie personali; la sua lunga consuetudine di approcci con il teatro e la scenografia gli consente di mutuarne lo slancio verso un impianto compositivo spettacolare – sia in pittura che in scultura -, anche quando l’opera è di piccole dimensioni. È soprattutto lo spazio di una visionarietà onirica aperta di fronte agli occhi dell’artista che, sull’onda di sogni diversi, sollecita spesso l’osservatore a un viaggio fantastico.

Il mare con la sua energia fatta di correnti che accarezzano la costa, che turbano gli equilibri interni secondo disegni di natura, che alimentano le diverse specie consentendone la riproduzione, è un ambito dove la spazialità del finito confina con la sostanza concettuale dell’infinito. Maran sembra collocarsi sul crinale di convergenza delle due dimensioni e ammiccare di volta in volta alla storia personale, alle leggende della tradizione, al tempo presente inquadrato nella sua problematicità che si alleggerisce, peraltro, nella forza dell’ironia e nel piacere di una visibilità talora ludica e gioiosa. Il tutto è sempre percorso da un vigore poetico che si quantifica in una serie di intrecci, vortici di linee attraversate dall’idea di un calore leggibile in tonalità cromatiche squillanti.

I racconti popolari sono reinterpretati alla luce di un’attualità intessuta di presenze, dove il pesce è la sintesi dell’uomo, immerso nelle vicende di un quotidiano che diventa nocciolo esistenziale. Sulla superficie dipinta questo si trasforma in una sorta di cielo stellato, con l’indicazione di una spazialità fatta pulsare da ritmi diversi: il senso di un tempo che passa, esso medesimo metafora di svolgimento della storia, fatta di tanti minuti in cui le creature si incontrano, si ammassano, ruotano in una coreografia di gruppo, dentro un concetto di socialità che, a volte, confonde le peculiarità dell’individuo appiattendone gli slanci di identità nella fusione con il collettivo; i singoli pesci si dislocano sul piano dell’opera, omologati in parvenze simili, a rappresentare il fenomeno massificante che avviene spesso nelle dinamiche sociali. Talora nel quadro le direzioni dei pesci in movimento sono diverse e diventano emblemi dei differenti destini degli individui, anche se sono inglobati in meccanismi apparentemente uguali. Utilizzando solitamente un ventaglio di colori piuttosto ridotto (giallo, magenta e azzurro), l’artista di Grado ottiene poi una serie corposa di sfumature, velature e tonalità, agendo sulla maggiore o minore acquosità del colore. E il vezzo manipolatorio della figura si riflette anche nella gamma di tipologie delle lische o dei pesci.

In alcune opere il segno non chiude un contorno figurale riconoscibile, ma si infittisce fino a creare una tessitura che ingloba lo spazio e ne determina le cadenze, in qualche caso alludendo a realtà labirintiche. L’artista gioca con la forma, la plasma a proprio piacimento pur mantenendone la struttura riconoscibile di base. Il che avviene anche nella scultura, disciplina dove l’estro creativo di Gianni Maran raggiunge esiti di assoluta raffinatezza e forza lirica nelle opere in ceramica. Qui diverse cotture e molteplici inserti in metallo (argento, bronzo e oro) conferiscono carattere ben riconoscibile a creature filanti nella verticalità, che avvitano nello spazio del presente la loro condizione di prelievi dalla classicità: è per questo che la figura femminile, “vestita” di preziosi smalti, si attesta al limite tra donna terrena e divinità celeste.

Uno dei perni generatori della riflessione è quindi il pesce, creatura capace di esprimere il carico simbologico che la cultura di tutti i tempi le attribuisce fino a incarnare l’attività vorticosa e impalpabile del pensiero. D’altro canto il suo nome greco (ichthus) non è un caso che sia acronimo significativo, il risultato delle prime lettere della locuzione tradotta “Gesù Cristo, figlio di Dio Salvatore”. L’artista lo concepisce non solo come una porzione di natura che fluttua nell’acqua, ma un involucro seducente di significati allegorici che corrispondono alle condizioni dell’uomo sulla terra. L’artista vede scorrere pesci che disegnano teorie ed evoluzioni geometriche, nelle quali sono “nascosti” racconti popolari e mitologie personali. Nella forza dell’ironia e nel piacere di una visibilità talora ludica e gioiosa Gianni Maran esprime una serie corposa di tensioni allegoriche che è possibile leggere nelle condizioni dell’uomo contemporaneo. Il ventaglio di colori si accende di sfumature cangianti in una disseminazione di bolle che appare una sorta di dispersione granulare. Quando la creatura marina è ridotta a pura lisca, è in ogni caso la testa che la guida nei flussi vitali in un concerto di scie luminose prodotte a volte dal cannello d’aria compressa, che toglie colore trasportandolo in zone di più marcata densità d’impasto. Questo resta sempre una pellicola finissima, che si presenta come diaframma tra l’occhio dell’osservatore e una profondità da ricercare con la fantasia. La cifra poetica sta tutta dentro quel complesso di intrecci, vortici di linee attraversate dall’idea di un calore leggibile in tonalità cromatiche squillanti.

In una delle fasi più recenti della sua ricerca Gianni Maran fa eclissare in alcuni casi la figura e ammatassa il segno infittendo la tessitura di uno spazio labirintico, che lascia trasparire la traccia di una gestualità governata dalla strategia geometrica. Che si precisa anche nelle esperienze vicine alla sensibilità optical, dove tracce di luce parallele animano una superficie di molteplici vibrazioni dove mulinelli figurali e vortici di segni catturano lo sguardo del fruitore dentro una profondità magica, da conquistare con la fantasia. Qui si ritrova quella stessa lucentezza che ceramica e smalti danno alla scultura: divinità marine che sono un inno alla bellezza femminile e al corpo armonioso della donna, risolte e giocate sulla verticalità di un’eleganza che, in perfetta sospensione, equilibra essenzialità della forma e splendore cromatico, dove le trasparenze riportano queste creature nell’alveo che concettualmente le ha generate, il mare appunto. In tal modo, con la medesima energia poetica che anima la superficie dei suoi quadri, Gianni Maran “scrive” pagine di un diario dove le positività dell’esistenza mettono in sordina le inquietudini della contemporaneità, pur vissute a pieno con una sensibilità pronta ad ascoltare i battiti più segreti della storia attuale. Il tutto accade anche perché l’artista ha costantemente la necessità di trarre linfa vivificatrice dall’atmosfera di Grado, così come il pensiero di Biagio Marin gli ha indicato in molti suoi versi.