Giotti e Marin un’amicizia “stellare”

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di Pericle Camuffo

 

Negli articoli che dedica a Virgilio Giotti, tra il 1956 ed il 1958, Biagio Marin descrive e sottolinea prima le caratteristiche d’anima e d’esistenza dell’amico triestino e solo in un secondo momento il valore della sua poesia. Non perché la poesia per Marin venga seconda a qualcosa, ad una sorta di progetto d’uomo definito da parametri prestabiliti, da pose, da titoli, da abbellimenti berghesizzanti, da mode, bensì perché questa non può esistere al di là e al di fuori dell’uomo, di una certa cifra d’umanità che ha a che fare con la dignità caustica, a volte cruda, di chi sa se stesso fino in fondo ed affronta questo suo essere e stare – al mondo – con l’eroismo dimesso del soldato. Umanità, modestia, affettuosità, carità, povertà, dignità: è tutto qui ciò che colpisce Marin quando entra per la prima volta nella casa di Giotti a San Felice a Ema, vicino Firenze, nel 1917. Come era successo qualche anno prima, sempre a Firenze, con Scipio Slataper – “Io sono sempre stato affascinato più dall’uomo, che dal poeta e scrittore”, appunta sul suo diario il primo settembre 1955 – così avviene anche per Giotti: “Dei suoi versi, in quei primi tempi della nostra amicizia non mi interessavo né lui me ne parlava. Era la sua persona la mia fonte di bene”, scrive in un testo del 1 novembre 1956 recuperato e pubblicato da Anna De Simone nel numero 14 di Studi Mariniani (2008). Ed Umanità e poesia di Virgilio Giotti si intitola proprio il suo articolo forse più conosciuto, pubblicato sulla rivista triestina Umana (n. 7-8, settembre-ottobre 1957), come un paio d’anni prima c’era stato l’articolo Umanità di Scipio Slataper (Studi Goriziani, Gorizia, 1955).

Certo quello esercitato da Giotti è un “fascino” diverso rispetto a quello suscitato da Slataper, modulato su sentimenti diversi, quasi opposti: l’esuberanza fisica ed intellettuale di Scipio, la sua luce intensa, e la penombra di Giotti, la sua “castità dello spirito”, il sussurro doloroso, ma non rassegato. In entrambe, comunque, i tratti del volto affilati a tagliare la vita.

Quando poi leggerà ciò che i due amici scrivono, la vicinanza maggiore e immediata Marin la scoprirà nella poesia di Giotti, perché poeta, poeta in dialetto, poeta largamente sottostimato ed ignorato dalla grande critica e dal grande pubblico, la stessa critica e lo stesso pubblico che sottostimavano ed ignoravano la sua poesia. Leggendo alcuni dei suoi articoli, sembra che Marin parlando della poesia di Giotti e del suo percorso di poeta parli, in fin dei conti, di se stesso: Giotti che sceglie il dialetto come “misura della propria anima”, come unico linguaggio che gli permette di “disintellettulizzarsi da tutto”, che vive in povertà perché “inetto alle pratiche capacità di lavoro redditizio”, che trasforma la povertà “in ricchezza di spiritualità, di poesia”, che vive il triste destino di tutti i poeti, quello di “essere soli sulle cime”, ma per cui verrà il tempo in cui “i giovani godranno della musica raffinata dei suoi versi”.

Una comunanza ampia, profonda, quella che Marin avverte nei confronti di Giotti, ritmata da frequenti incontri e lunghe chiacchierate; amicizia allargata anche agli altri componenti di entrambe le famiglie, ai figli, alle mogli – non va dimenticato che Giotti, come Slataper, è stato incontrato e conosciuto prima da Pina Marin – come testimoniano queste note di diario ancora inedite:

 

2 gennaio 1953 – venerdì

Fine d’anno e Capo d’anno passati con la Lella e con Mariano, serenamente.

Ieri nel pomeriggio siamo andati a trovare Giotti. Tutte le volte che lo riavvicino, egli è per me ragione di grande ammirazione. La sua umanità, il suo equilibrio, la sua saggezza sempre mi danno gioia. Abbiamo parlato molto di arte e di artisti. Tra le altre cose, mi ha detto che egli compone le sue poesie con grande fatica, e che le prime strofe del Velier, gli sono costate un mese di pena. Disgraziatamente io me la sbrigo in poche minuti. Né so tornarci sopra. L’ho fatto unicamente per le Litanie de la Madona. Manco di ogni senso critico e non so distinguere un verso bello da un verso falso.

 

21 IX ’53 – lunedì

[…]. Ieri con Pina andai a far visita a Giotti. In quella sua casa così assolutamente povera e pulita si respira sempre una strana aria di tempi innocenti e giovanili. È vecchio Giotti, anche più di me, ma tutte le volte che vado a trovarlo mi dà gioia e conforto. Il cielo luminoso, il vento fresco di mare che arriva al suo quinto piano erano tutt’uno con lui e la Nina e la sua nipotina dal riso magnifico.

Abbiamo parlato dell’ultimo libro di Stuparich, il Simone. Anche lui lo reputa un fallimento. Lo dice perfino scritto male.

 

15 genn. 1955 – sabato.

Oggi il poeta triestino Virgilio Giotti compie i suoi 70 anni. Lo conosco e lo amo dai miei anni giovanili fiorentini; come poeta lo stimo moltissimo. Il suo amore per la sua compagna ammalata di epilessia, è commovente. Le dimostra un amore paterno e fraterno pieno di delicatezza.

Aveva due figlioli che erano una meraviglia di bellezza e di intelligenza: Paolino e Franco. Paolino aveva una statura alta e una corporatura forte; e un viso tipicamente slavo. Sua madre, la Nina, è russa. Ed era assai buono e caro. Franco, meno affettuoso forse, ma molto intelligente. Tutti e due sono andati in guerra in Russia e non sono più tornati. La dignità con la quale Giotti ha sopportato la stroncatura, lui così tenero babbo, è stata veramente di grande anima. L’unica eco, risuona in alcuni dei suoi ultimi versi, fra i più belli. E come è vissuto poveramente tutta la vita. Una povertà da grande aristocrata. Una povertà lucida, tesa, in cui il minimo oggetto assumeva la dignità della bellezza. Lui non si è imborghesito; è rimasto davvero un popolano aristocratico. A lui devo molte ore buone e belle. Dio gli renda la sua sera meno triste.

 

Nell’ambiente intellettuale e artistico triestino degli anni Cinquanta, tra i personaggi che frequentano il salotto di Anita Pittoni, e non solo tra loro, Giotti è per Marin una sorta di fratello maggiore, un punto d’appoggio, qualcuno che sente dalla sua parte. È poeta che stima, a cui fa leggere le proprie poesie e da cui si aspetta giudizi e suggerimenti costruttivi, salvo aversene, poi, quando questi non arrivano o sono sbrigativi, come appunta nel diario il 20 giugno 1951: “Ieri era anche da me Giotti, per restituirmi i miei versi. Lo avevo pregato di farne un’attenta lettura per consigliarmi eventuali tagli e eliminazioni. Ma evidentemente, si è annoiato presto e mi ha restituito il dattiloscritto senza farmi concrete proposte e dicendomi solo che la mia poesia aveva il difetto dell’abbondanza”.

Certo la loro è un’amicizia fratturata da incomprensioni e piccoli scontri, costruita su diversità anche profonde. È Marin stesso a metterle in evidenza nello scritto già citato del novembre 1956: “Io ero la sua antitesi: morbido e torbido, presuntuoso e violento; immerso fino agli occhi nella tradizione dei miei; irredentista persuaso, credente nella funzione benefica della guerra. A tutto questo Virgilio non partecipava”.

Ma è una distanza che viene vissuta in maniera costruttiva, pratica di ripensamento di se stessi, di riconsiderazione della propria arte attraverso la considerazione dell’arte dell’altro, conoscenza di sé attraverso la conoscenza dell’altro, come appare chiaro da questa nota di diario:

 

14 genn. ’55 – venerdì

[…]. Lo studio della poesia di Giotti, lentamente mi insinua nell’anima il sospetto della ragione fondamentale per cui la mia poesia non è passata, cioè non è riuscita a farsi stimare dai migliori tra i critici, p. e. da Pancrazi che pur l’ha conosciuta, o da Montale. Pare che essa manchi del secondo piano, che sia troppo verbale, troppo immediata.

Tutta la vita ho sbagliato perché ho sempre ritenuto che la poesia sia innanzi a tutto felicità di canto. E quando conobbi Giotti e lessi il suo primo volumetto di versi, mi scandalizzò proprio la mancanza dell’onda di canto. Ora capisco invece, quanta forza d’arte implicavano quei versi continuamente rotti per inserire in quelle fratture l’anima.

 

Al di là delle diversità che pur rimangono a marcare una distanza netta tra i due, e a differenza di quanto accadrà con altre persone, con Giani Stuparich, per esempio, quella con Virgilio Giotti è stata per Marin una di quelle amicizie “stellari” di cui parla Nietzsche ne La gaia scienza, che si spezzano, che inevitabilmente si interrompono, ma che brillano per sempre nella sacralità di un momento di contatto, di scambio, d’amore, dove la dimensione dell’alterità è luogo di indebolimento, di apertura, di ascolto, di ospitalità, intreccio di tensioni germinative, dialogo. “Ogni contatto con lui – scrive Marin nel testo del 1956 curato dalla De Simone – era per me occasione di illimpidimento. Anche quando non ero d’accordo con lui, anche quando il suo modo di essere e di vivere turbava le radici fonde della mia struttura, sempre lo rispettavo. Per la prima volta capivo cosa fosse il dialogo con un uomo da me diverso, quel rimanere aperto anche quando l’istinto porta a chiudersi, quella rinuncia al giudizio negativo che non si ottiene senza sforzo e mortificazione talvolta della nostra vanità”.