Giuseppe Loy, per un archivio della memoria

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Le sue foto alle Gallerie Nazionali d’Arte Antica al Palazzo Barberini di Roma

di Michele De Luca

 

«Mi illudo, morto, di lasciare qualcosa che gli altri possano portare avanti. Inezie, ma che funzionano se sommate al poco o al molto che gli altri uomini lasciano». Sono parole di Giuseppe Loy nelle quali si può racchiudere il senso e lo scopo di una vita dedicata alla fotografia, quello di lasciare ai posteri, per il grande mosaico della memoria, una piccola tessera che, come ha detto, ha la sua ragion d’essere nel rappresentare una parte del tutto, e di partecipare dell’intera opera. Inoltre, la fotografia – ha scritto ancora Loy in un appunto ritrovato dal figlio Angelo, «è una delle armi che ci consente di applicare l’ intelligenza al quotidiano». Di stabilire, cioè, il nostro rapporto più intimo e personale, attraverso lo sguardo e l’obiettivo, con il fluere della vita di tutti i giorni.

Giuseppe Loy è appartenuto ad una famiglia speciale: fratello minore di Nanni, popolarissimo nel 1964 per la famosa e indimenticabile serie televisiva della RAI Specchio segreto, oltre che regista di film come Le quattro giornate di Napoli e Detenuto in attesa di giudizio, nel 1954 sposa la scrittrice Rosetta Provera, nota nella storia letteraria italiana del ‘900 come Rosetta Loy, autrice del pluripremiato romanzo Le strade di polvere. Trasferitosi a Roma da Cagliari, dove era nato nel 1928, dopo gli studi alla facoltà di Giurisprudenza, si dedica alla fotografia, esponendo per la prima volta, nel 1965, presso la Libreria Einaudi di Via Veneto; per l’occasione il critico, studioso e teorico della fotografia Antonio Arcari in un articolo sulla rivista Magazine sottolineò la novità e la freschezza del suo approccio alla fotografia con lo sguardo della passione, piuttosto che della “professione”. La sua vita diventerà tutta per (e con) la fotografia.

Fino ad oggi, però, non erano in molti a conoscenza del poderoso archivio fotografico da lui costruito lungo tutto l’arco della sua esistenza e lasciato a tutti come una testimonianza eccezionale della nostra memoria visiva: 70.000 foto e oltre 1800 stampe originali conservate amorevolmente dalla sua famiglia, che solo dopo la sua scomparsa avvenuta nel 1981 incominciarono ad essere riordinate in vista di una realizzazione editoriale per Laterza con il titolo Il mare degli italiani, progetto che però venne abbandonato.

Molto opportunamente e meritoriamente, a quarant’anni dalla morte del fotografo, le Gallerie Nazionali di Arte Antica nella superba sede di Palazzo Barberini a Roma, hanno organizzato la sua prima retrospettiva: “Giuseppe Loy. Una certa Italia. Fotografie 1959-1981”, a cura di Chiara Agradi e Angelo Loy. Per l’occasione la casa editrice Drago ha pubblicato uno splendido volume, la cui prima ideazione fu dello stesso Giuseppe Loy appena prima della sua morte, che contiene i testi di Edoardo Albinati, Chiara Agradi, Luca Massimo Barbero, Bruno Corà, Emilio Garroni, Margherita Guccione, Angelo Loy, presidente dell’Archivio Fotografico Giuseppe Loy, Rosetta Loy e Alice Rohrwacher.

Il suo percorso fotografico parte da un generale interesse per la fotografia sociale, ispirata da un “tocco umano” che ci fa pensare a Doisneau: anche per lui, infatti, la poesia è nelle cose, nel piccolo o grande mondo quotidiano che ci sta attorno e che aspetta solo di essere colto, cosa che il grande maestro francese riteneva «più facile che fare un mazzo di fiori». Nelle sue immagini spesso “rubate” le tematiche ricorrenti sono riservate ai piccoli riti della quotidianità, a gesti apparentemente insignificanti di persone che i suoi scatti fanno diventare “personaggi”, ad un’attenzione costante, tra nostalgia e curiosità per il “nuovo”, sulle trasformazioni urbane, ai ritratti di artisti da lui frequentati tra cui Burri, Afro, Lucio Fontana.

Le sezioni della mostra che si srotolano lungo l’avvincente percorso espositivo ci fanno condividere con il fotografo un viaggio nel tempo, dagli anni ’60 agli ’80, e nello spazio racchiuso entro i confini del nostro Paese, da Lipari (bellissima la foto che ritrae una ragazza che legge il giornale) a Torino (in uno scatto tutta la solitudine di un emigrato), da Alghero a Milano, dalla Calabria alla Val Gardena. Ma l’oggetto della sua più assidua e curiosa osservazione, almeno da quello che ci fa vedere la selezione di foto di questa mostra e dalle preziose ed impeccabili riproduzioni sul volume, sono Roma e il litorale laziale, da Sperlonga a Terracina, da Civitavecchia e Santa Marinella, da cui sono tratte foto che oltre alla “cronaca” di un turismo balneare ancora decisamente non di massa, a cui siamo ormai abituati, privo di strutture invadenti che hanno violentato, ad esempio, la Piana di Sant’Agostino a nord della splendida Gaeta.

Come bene ha scritto Margherita Guccione, specie in queste foto, tra le quali si vede come sia più avvertita dall’autore una particolare ricerca anche sul piano più strettamente “formale”, nei contrasti del bianco e nero, nel taglio delle immagini e in originali inquadrature, si coglie il suo «piacere dello sguardo, che si concretizza nella ricerca della composizione misurata, calibrata, che valorizza le geometrie del reale e ne esalta le forme nelle numerose fotografie dedicate alle località d vacanza degli italiani, al mare come in montagna, che coglie l’intensità di uno sguardo inaspettato, di un volto, nei ritratti di famiglia».

Vale qui, per addentrarsi criticamente nella conoscenza e nell’interpretazione più chiara delle motivazioni, delle considerazioni teoriche e del concreto “fare fotografia” di Loy, rifarsi direttamente e integralmente a quanto lui annotato, come ricaviamo da un brano di un suo appunto del maggio 1981, circa quattro mesi prima di lasciarci, e che leggiamo nell’originale dattiloscritto riprodotto sul libro che accompagna la mostra: «Si pensa di poter dire che la macchina fotografica resta uno dei mezzi meno mistificanti se adoperato per dare conto in modo diretto e onesto di certe realtà. Sempre che vengano cercate anche nei territori modesti ed elementari: ricognizioni rispettose e prudenti che devono spesso schivare il richiamo confuso e deviante delle ‘grandi’ occasioni che tentano il fotografo nelle sue passeggiate e nei suoi viaggi nel quotidiano. Non si è mai abbandonata l’idea, come autori di ben altre e alte discipline possono dimostrare, che l’esame di una realtà minore possa, alla lunga, fornire suggerimenti più precisi, meno legati a mode, più autentici».

 

 

Lipari

1965