SPECIALE SG Gli Ebrei: prose narrative d’esordio

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di Walter Chiereghin e Adriana Medeot

 

Nel panorama dell’opera narrativa in prosa di Umberto Saba, Gli Ebrei costituiscono, cronologicamente, il primo nucleo, essendo stati scritti tra il 1910 e il 1912. I cinque racconti che passano tutti sotto questo titolo, come pure le Sette novelle che li seguiranno, sono quindi da considerarsi parte dell’opera giovanile del poeta triestino, non ancora trentenne all’atto della stesura dei racconti.

A parte un precedente frammento di racconto, Il sogno di un coscritto, datato 1907, il nucleo di prose è decisamente staccato dalla produzione prosastica successiva, dalla quale lo separa un periodo di circa vent’anni e comprende, oltre Gli Ebrei, le Sette novelle del 1912 – 13, Ferruccio e Lissa, sempre del 1913, Il figlio lontano, del 1915, e due testi teatrali che rimasero dimenticati tra le carte del poeta, al punto da non essere stati inclusi nel volume mondadoriano delle Prose del 1964 e quindi stampati – sempre da Mondadori – soltanto nell’edizione del 2001 curata da Arrigo Stara per la collana I Meridiani. Il primo di tali testi teatrali (Mario), incompiuto, è del 1903 e l’altro, l’atto unico Il letterato Vincenzo, del 1911, fu rappresentato per una sola volta a Trieste (ma ripreso nel 2007 in occasione delle celebrazioni per il cinquantenario della morte).

Mentre il lavorio di rifinitura, rimaneggiamento, esclusione ed adattamento dei testi poetici operato da Saba attraversa tutta la storia del Canzoniere e delle sue successive edizioni, per quanto concerne la produzione in prosa di impronta narrativa non si riscontra alcun aggiornamento, e non è in alcun modo arbitraria una classificazione temporale che distingua il Saba prosatore giovanile da quello delle Scorciatoie e Raccontini, la cui redazione avviene a partire dal 1935 e la cui prima edizione esce a Milano, per i tipi della Mondadori, nel 1946 e ancora quest’ultimo dall’autore dell’Ernesto, il romanzo incompiuto della più tarda maturità, destinato per volere dello stesso autore (che aveva anzi chiesto che fosse distrutto) a rimanere inedito fino a molti anni dopo la sua morte.

Nelle intenzioni di Saba, i racconti de Gli Ebrei avrebbero dovuto costituire parte di un libro fatto di “raccontini, novellette, brevi saggi”, come confiderà l’autore a Nello Stock in una lettera del 22 novembre 1952, ed essere pubblicati su La Voce, ma né l’una né l’altra di tali due condizioni si verificarono appieno: soltanto la prima di esse si concreterà, ovviamente in forma assai diversa e in unione a testi successivi di molti anni, solo nel 1956, quando furono pubblicati, presso Mondadori, i Ricordi – Racconti, dei quali Gli Ebrei costituiscono una prima sezione. Per quanto riguarda la pubblicazione su La Voce, soltanto un racconto, Il ghetto triestino verso il 1860 (titolo poi cambiato in Il Ghetto di Trieste nel 1860), fu pubblicato dalla rivista fiorentina nel numero del 16 maggio del 1912.

I racconti de Gli Ebrei costituiscono per Saba la prima prova narrativa compiuta, anche se incompleta rispetto al progetto originario, di cui possiamo solo supporre le ragioni che hanno indotto l’autore a fermarsi al quinto racconto; tra queste, è probabile che vi sia la freddezza della Voce, che si limitò a pubblicare uno solo di essi. Come scriverà in uno dei sonetti dell’Autobiografia, nel 1924: A Govanni Papini, alla famiglia / che fu poi della Voce, io appena o mai / non piacqui. Ero tra lor di un’altra spece.

Gli anni nei quali presero forma i racconti de Gli Ebrei, cioè l’intervallo 1910-1912, costituirono un periodo denso di avvenimenti nella vita di Saba, sia dal punto di vista personale che da quello letterario.

Il 1910 si apre per lui con la nascita della figlia Linuccia, il 24 gennaio, quando ancora non era compiuto il primo anniversario di matrimonio tra Umberto Poli e Carolina Woelfer.

Senza ripercorrere per intero la biografia di Saba, bisogna tuttavia soffermarsi su quella unione ancora recente negli anni che prendiamo in considerazione, il triennio dal 1910 al 1912, e destinata, nonostante alcune premesse non molto incoraggianti, a perdurare finché la morte non separò i due coniugi, nel 1956. Quella dei primi anni di matrimonio è la storia di una lunga crisi coniugale, che avrà il suo punto di rottura, in seguito superato, con l’abbandono da parte di Lina del tetto coniugale, nel 1911. La vicenda fu materia che alimentò i Nuovi versi alla Lina, sezione quasi narrativa della raccolta Trieste e una donna.

Il 1910, cominciato con la nascita di Linuccia, si chiuse a novembre con un altro parto: il primo libro pubblicato da Saba, Poesie, edito a Firenze, a spese dell’autore, con prefazione di Silvio Benco, che tra l’altro in quel suo testo scrisse “… il Saba non è notevole perché formi il verso con eleganza o con splendore, e anzi prevedo che sarà chiamato molte volte a giustificarsi di qualche prosaicismo; ma è notevole perché dice quello che sente, e trova il tono giusto e interessante del suo sentimento, ancorché strisciate di prosa si allunghino attraverso la poesia…”. Giudizio critico che, in nuce, contiene un aspetto rilevante della poetica di Saba, che nel febbraio del 1911 inviò a Slataper, perché fosse pubblicato sulla Voce, un breve testo, Quello che resta da fare ai poeti, pubblicazione che non ebbe luogo, per cui il breve saggio uscì postumo, per i tipi dello Zibaldone di Anita Pittoni, soltanto nel 1959.

Quel testo fu redatto a ridosso della pubblicazione di Poesie e non è probabilmente estranea a Saba la volontà di fornire più che una risposta, una chiave interpretativa ai suoi critici, anticipando in tale maniera quanto più tardi farà in modo più articolato e organico con Storia e cronistoria del Canzoniere.

La risposta di Saba alla domanda incapsulata nel titolo di quel suo saggio è che ai poeti rimane da fare una poesia “onesta”. Per rendere concreto questo assunto, Saba si giova di una esemplificazione, contrapponendo la poesia del Manzoni a quella di d’Annunzio, rilevando l’onestà dell’uno, che produce versi al contempo “mediocri ed immortali” alla “nessuna onestà” del secondo che lo induce a scrivere “magnifici versi per la più parte caduchi”. L’onestà dell’autore è dovuta tanto a se stesso quanto ai lettori e costituisce la premessa per la più perfetta aderenza del testo a quelle che erano state le intenzioni originarie di chi lo ha scritto: in questo senso l’austerità del Manzoni è in grado di offrire sul piano poetico, anche mediante versi impacciati, assai più di quanto non faccia l’elegante raffinata eloquenza meridionale di d’Annunzio. Il breve saggio si conclude con l’esortazione a “un ritorno alle origini: con un’opera forse più di selezione e di rifacimento che novissima creazione; resta ad essi quello che finora fu solo raramente e parzialmente compiuto, la poesia onesta.

L’esigenza di “un ritorno alle origini” convoglia Saba a una ricerca su se stesso che poi perseguirà per tutta la vita, in prosa e in poesia, ma anche nell’analisi psicoanalitica, nei rapporti con quanti gli furono vicini, come ampiamente è documentato dalle lettere. Una ricerca che inizia dall’aria natia, come viene chiamata in una delle liriche di Coi miei occhi, in seguito rinominata Trieste e una donna. Gli Ebrei costituiscono in prosa la ricerca dell’aria natia, anzi, più addietro ancora, un’indagine intenerita delle proprie radici che è quella della famiglia della madre. I racconti, infatti, descrivono, non senza una buona dose di ironia, oltre che di affettuosa partecipazione, il microcosmo israelita che, per antico radicamento e probabilmente per mancanza di risorse economiche continuava ad accalcarsi nel Ghetto di Trieste ancora alla metà del ‘800, anche se legalmente i suoi abitanti avevano la possibilità di lasciarlo fin dal secolo precedente. Più tardi, negli anni Trenta del Novecento, su iniziativa del podestà Salem, la zona fu in gran parte demolita e sparì la via Riborgo, la più importante arteria affollata di bottegucce, dove aveva abitato con la madre e la zia Regina anche Saba, negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza.

Con la stesura dei cinque racconti raccolti sotto il comune titolo Gli Ebrei, Saba intese esplorare le proprie radici e approdare a una maggiore consapevolezza di sé, indagando sulle proprie origini familiari andando a ritroso nel tempo, in una sua Trieste prenatale, appresa, com’è per tutti i bambini, in primo luogo dai racconti uditi in casa, a comporre quella sorta di mitologia d’ambito familiare che è nella storia di ogni famiglia, anche di quelle, come la sua, su cui grava l’assenza di uno dei due genitori. Occupandosi degli ebrei, Saba compie evidentemente una scelta tra le “due razze in antica tenzone”, riconoscendo nella sua ascendenza materna l’humus nel quale affondavano le sue più confitte radici, né del resto avrebbe potuto scegliere altrimenti, se ebraico appariva, tutt’intero, il suo orizzonte di legami affettivi ed il suo bagaglio di memorie personali e di esperienze culturali.

Vi è un precedente importante, sottolineato da gran parte della critica, soprattutto di quella di estrazione psicoanalitica, in cui Saba ci parla di ebrei prima della stesura dei racconti dei quali ci occupiamo ed è un sonetto dei Versi militari, intitolato Bersaglio, in cui il poeta narra di un’esercitazione di tiro nella quale immagina di colpire, sparando, l’orrore che i miei occhi hanno sofferto. // Tanto che di deforme hanno veduto, / di troppo ebraico, di troppo panciuto, / di troppo lamentosamente impuro. L’ambivalenza dell’atteggiamento di Saba nei confronti di quello che fu il versante materno della sua ascendenza, a volte affettuosamente contemplata, altre volte, come in Bersaglio, crudamente esplicitata è stata variamente interpretata in chiave psicoanalitica sottolineando la conflittualità interiore che ne scaturisce, collegandola magari a non del tutto probabili suggestioni derivanti da un ”antisemitismo degli ebrei” mutuato da Weininger (che uscirà in edizione italiana soltanto nel 1912). Come che sia, da quell’ambivalente avvertimento della propria appartenenza a quel mondo deriva a Saba l’esigenza di occuparsi della condizione degli ebrei, frugando nelle memorie familiari come si fa esplorando una soffitta impolverata, valendosi di uno strumento, la prosa narrativa, da lui ancora maneggiato con qualche impaccio.

Nel suo complesso, Gli Ebrei si qualifica come una descrizione, più che di singole vicende, di un ambiente sociologico del tutto particolare e omogeneo, un milieu che costituisce il presupposto delle vicende individuali, quello della condizione ebraica degli antenati dell’autore.

Negli anni di già fervida attività che ruotava attorno all’edificazione di quello che sarebbe divenuto il suo Canzoniere, disegno che avrebbe condotto alla creazione di una grande opera di poesia sostanzialmente unitaria, la decisione di affiancare una parallela attività di scrittura in prosa sembra essere stata dettata a Saba da un’esigenza di “guardarsi dentro” che era anche al contempo (e necessariamente) quella di “guardarsi attorno”.

Guardarsi dentro diveniva occupazione vincolante per conseguire quell’ambizioso progetto di “poesia onesta” che il poeta aveva teorizzato con Quello che resta da fare ai poeti, mentre guardarsi attorno ne era un corollario obbligato, che troverà compimento in molte liriche di Trieste e una donna, quelle che hanno legato per sempre il nome di Saba al paesaggio urbano della sua città.

A quel suo appropriarsi dei luoghi doveva corrispondere anche un appropriarsi dei tempi e quindi la sua geografia doveva trovare precise rispondenze nella sua storia. A confermare questo assunto, molte delle poesie prodotte in quel periodo indugiano nella descrizione di luoghi e paesaggi, in qualche caso addirittura indulgendo a citazioni toponomastiche, mentre al contrario nei racconti manca quasi del tutto la descrizione del paesaggio, limitato soltanto a brevi accenni qua e là, al punto che la narrazione risulta collocata in nessuno spazio specifico, preoccupata com’è di analizzare le caratteristiche psicologiche dei personaggi e persino degli ambienti rappresentati, senza curarsi di fondali che potevano essere solo intuiti dai lettori triestini dell’epoca (quasi da nessuno, dunque).

Per esplorare il proprio percorso storico era necessario un riesame diacronico dei presupposti, degli antefatti cioè che costituivano la preistoria e tali antefatti erano pervenuti a Saba come pervengono a chiunque altro, ossia in forma narrativa, coi racconti uditi a casa. Quasi naturale allora la scelta, nel riferirli ai lettori, del medesimo mezzo narrativo con cui erano stati riferiti all’autore, quindi la prosa, che difatti affianca la poesia in quel periodo, per la prima volta.

Se per quanto attiene alla poesia disponiamo di strumenti conoscitivi per scoprire i riferimenti rinvenibili nella cultura e nel gusto di Saba, soprattutto agli esordi e nel periodo della sua attività giovanile, diverso invece è il discorso per la prosa, dove più labili si fanno i riferimenti e più incerta persino la conoscenza di quale fosse il retroterra di letture compiute da Saba, ma è certo che, quali che fossero i suoi riferimenti in ambito narrativo, fin da queste sue prime prove egli esibì uno stile proprio, personale, di certo immune dalle mode dell’epoca, rifuggente da ogni sperimentalismo anche nella stesura dei suoi primi racconti. Semmai, è riconoscibile nella sua scrittura una vicinanza a modelli tardo ottocenteschi, improntati a un realismo per molti aspetti verghiano, funzionale all’esigenza di offrire una visione del microcosmo del Ghetto che lo stesso autore esplorava nella sua ricerca. Era, tale visione, (perlomeno da come ce la descrive Saba) la rappresentazione di un accerchiamento, di un mondo ostile ed ingiusto che preme alle porte: i “goim” sono vissuti come i persecutori e i “nemici”, come letteralmente li definisce il giovane Luzzatto nel racconto che apre la serie.

In generale, l’atteggiamento complessivo che lo scrittore lascia trasparire nella valutazione etica e nella riflessione sociologica riguardo agli ebrei appare venata di una benevola ironia propria di uno che si sente al contempo fuori e dentro le ormai inesistenti mura del Ghetto. Del resto è egli stesso ad ammettere tale sua ambivalenza nei confronti del mondo del quale ancora fece parte la madre, ma da cui lui si riteneva, almeno parzialmente, uscito. Scriverà difatti molto più tardi, nell’accingersi a pubblicare integralmente quelle prose quasi dimenticate: “I cinque racconti (se racconti possono chiamarsi; in realtà sono piuttosto memorie espresse in forma narrativa) furono scritti quando l’antisemitismo pareva un gioco ed io potevo, senza rimorso, abbandonarmi alla comprensiva ironia, venata di nascosta tenerezza, verso persone e cose (vere le une e le altre) che conobbi e vidi, o di cui, più spesso, ho sentito parlare, al tempo della mia fanciullezza. Mia madre – come si sa – era ebrea, ed ebrea era tutta la sua famiglia. I racconti sono nati da due movimenti: dalla reazione (venata – come ho detto – di tenerezza) ad un modo di essere che non era il mio, che era già molto raro in quegli anni, e che mi stupiva come una «nota di colore» in più nel «mondo meraviglioso», e, penso, da una specie di nostalgia per mio padre, che non era ebreo e che conobbi poco e tardi.”

Ecco che allora si rende opportuno riferirsi, per una più esaustiva comprensione di questi racconti, a una via d’interpretazione psicologica che affianchi ed integri quella letteraria, storica e sociologica qui appena abbozzate, ponendo in relazione i racconti con la produzione in versi ad essa contemporanea, che era il campo dove, esplicitamente, più a fondo si spendevano le qualità letterarie dell’autore.