Gli ottant’anni di una ragazzina

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Incontro con Ariella Reggio

di Adriana Medeot

 

6 settembre 2016. Ariella Reggio oggi compie ottant’anni e li festeggia sul palcoscenico, come spesso è accaduto nella sua vita. Porta in scena, al Lunatico Festival, il testo di un suo amico, Gianni Fenzi, che ha saputo evocare, nel suo Passeggeri a Trieste, le atmosfere e le ragioni di due personaggi che sulla follia avevano qualcosa da dire: Carlotta, moglie di Massimiliano d’Austria, e Franco Basaglia. Lei, impazzita, dopo la morte del marito e la disgregazione del suo sogno romantico goethiano; lui, fuori dal coro, rivoluzionario nella sua idea di gestione della malattia psichiatrica. Insieme ad Ariella, Omero Antonutti, un grande attore, anch’egli suo amico. Perché nel mondo di Ariella l’amicizia conta. E lo sanno le persone che le sono state vicine, la grande famiglia del Teatro La Contrada, così come il suo pubblico che da sempre l’accompagna con affetto.

Eclettica e curiosa di sperimentarsi nelle diverse opportunità che la professione le offre, scevra da pregiudizi, animata da un pensiero profondamente aperto e curioso verso le novità e i giovani, Ariella continua a scorrazzare per l’Italia in tournée teatrali con l’entusiasmo e l’energia di un’adolescente – prevista nella stagione 2016/2017 la ripresa del fortunato Calendar girls – a cimentarsi nelle fiction televisive così come nel cinema. Oltre a ciò, rimangono costanti la sua voglia di affrontare nuove avventure professionali e il suo impegno con il Teatro La Contrada, che ha fondato nel 1976 – sono quarant’anni! – insieme a Orazio Bobbio, a Francesco Macedonio e a Lidia Braico.

 

D.: Oggi è una giornata speciale per te, un traguardo invidiabile se vissuto con la vivacità e la curiosità nei confronti della vita che dimostri di avere: festeggi i tuoi ottant’anni proprio sul palcoscenico. La tua vita privata e quella professionale si sono spesso intrecciate, è stato facile o difficile?

Difficilissimo! È stato davvero difficile affrontare le sofferenze della vita quotidiana e dover andare in scena, anche quando avrei avuto bisogno di stare da sola a riflettere o semplicemente a piangere. La mia professione mi ha talvolta imposto di dover far ridere il pubblico anche quando avevo appena perso una persona cara. Non ero dell’umore giusto, ma l’ho fatto. In teatro si dice: “The show must go on!“

L’esperienza però mi ha fatto capire che recitare, anche quando ho dovuto sforzarmi per strappare una risata mentre dentro di me c’era un’infinita tristezza, mi ha aiutato a superare i momenti brutti. L’applauso del pubblico è qualcosa di magico: una ricarica, una sferzata d’energia. Sono davvero riconoscente al mio lavoro che mi permette, ancora oggi alla mia età, di comunicare qualcosa di me e di ricevere in cambio forti emozioni.

D.: In molte occasioni hai raccontato della tua avventura londinese negli anni Sessanta e del fatto che spesso ami tornare in Inghilterra. Avevi poco più di vent’anni e ti trovasti nel centro dei mutamenti sociali e di costume di un’epoca: un’esperienza straordinaria per una ragazza proveniente da una piccola città. Quanto ha influito sul tuo modo di pensare? E sul tuo modo di recitare?

Sul mio modo di pensare tanto, forse è stato davvero fondamentale. Mi ritengo davvero fortunata di aver potuto vivere quel periodo speciale, anche se ciò significa avere ottant’anni oggi! Un pensiero grato corre soprattutto ai miei genitori, per essere stati – e a quei tempi non era cosa consueta – così liberali, disponibili e generosi con me da permettermi d’intraprendere quell’avventura. Sul mio modo di recitare? Non lo so con certezza, indubbiamente però ammiro moltissimo le attrici inglesi e vorrei essere brava come loro.

D.: Passi con disinvoltura dal comico al drammatico, cosa non comune a chi recita in Italia. Perché, secondo te, hanno più fortuna le “maschere” piuttosto che gli attori sensibili e introspettivi nel nostro paese?

Come ho già detto, adoro alcune attrici inglesi: Maggie Smith, Judy Dench, Vanessa Redgrave. Sono i miei idoli, perché sanno interpretare Shakespeare così come sono a proprio agio in una fiction o in una sit-com. Possiedono una grande professionalità e non sono inclini a giudizi aprioristici, lavorano con serietà e senza “puzza sotto il naso”.

Non so perché in Italia sia tanto diverso. Di fatto, a qualsiasi pubblico piace sia ridere che commuoversi, purché l’interpretazione sia convincente. Secondo me, il problema non sta nel pubblico, ma in chi gestisce la cultura teatrale: da un lato, c’è una sorta di snobismo, un’eccessiva intellettualizzazione che non sempre si accompagna a una buona performance; dall’altra, un’attenzione esagerata alla commercializzazione dell’evento teatrale. Così, pur di rincorrere il facile consenso e quindi l’incasso, vengono proposti spettacoli sguaiati oppure drammoni strappalacrime. Non c’è la giusta misura: ridere, ridere, ridere senza riflettere… oppure piangere e strapparsi le vesti: ironia poca, noia spesso tanta. La vita invece è fatta di tanti momenti diversi, alcuni allegri, altri sentimentali, altri ancora tragici o comici, talvolta semplicemente sorprendenti. Di queste sfaccettature, credo, debba raccontare il teatro.

D.: Un’attrice giovane che ti piace. Perché? Ce ne sono parecchie, anche tra quelle che hanno lavorato o lavorano ancora con me, ma non ne voglio citare alcuna. Per me conta molto nella nostra professione, oltre al talento, lo studio e la serietà professionale insieme a una buona dose di umiltà… non troppa, quel tanto che serve per imparare da chi è più bravo. Ti dirò invece quello che non mi piace di certi attori: non mi piacciono le parole pronunciate per il solo piacere estetico del suono, private del loro valore comunicativo (a meno che non sia una scelta dell’autore); non riesco a sopportare il famigerato “ritmo vuoto” che sembra voler correre alla conclusione senza costrutto alcuno, mi sembra di ascoltare il ticchettio della macchina da cucire, veloce ma monotona, che mi fa addormentare; non mi piace la cosiddetta recitazione colloquiale, “naturale” – sostiene chi l’adotta -importata dalla televisione: è talmente sussurrata che gli attori sembrano scambiarsi confidenze private, perché nessuno riesce a capire cosa stiano dicendo. Il teatro non dovrebbe assomigliare alla televisione, perché il senso della sua esistenza è la comunicazione diretta con il pubblico, coinvolgente e viva di emozioni.

È solo la mia opinione, naturalmente. Capisco che il pubblico, soprattutto quello giovane, è abituato a ritmi veloci, ma forse proprio per questo il teatro dovrebbe costituire un luogo speciale dove imparare ad ascoltare e ad apprezzare anche i silenzi, che sono carichi di significato. C’è talmente tanto rumore nella vita di ogni giorno. Troppo! Il silenzio aiuta a riflettere e a riprendere contatto con il proprio mondo interiore, spesso travolto dalle esigenze del vivere quotidiano.

D.: Hai sempre sostenuto che Francesco Macedonio è stato il tuo regista d’elezione, il tuo maestro. Riesci a trovare tre aggettivi per definire il suo modo di rapportarsi con l’attore?

Macedonio? Aggressivo, penetrante, poetico. Macedonio ti scavava nel cervello e nell’anima facendoti – anche – male. Da lui ho imparato tutto. Penso che sia stato un grande maestro per gli attori che hanno avuto la fortuna di lavorare con lui e la sufficiente umiltà per saperlo ascoltare e capire.

D.: Recentemente in un’intervista la regista Serena Sinigaglia ha detto: “La soddisfazione maggiore è vedere che la sala risponde positivamente al tuo lavoro, che non lo subisce, ma respira, sorride e piange con lo spettacolo”. Raccontami la tua recente esperienza con lei a Torino

Nel 2015 è stato messo in scena dal Teatro Stabile di Torino, in collaborazione con Scuola Holden, 6Bianca, serie teatrale in sei episodi, ideata da Stephen Amidon, regia della Sinigaglia, a cui ho preso parte. In quell’occasione è stato molto interessante conoscere l’autore, lo scrittore statunitense de Il capitale umano da cui Virzì ha tratto il bellissimo film omonimo. Amidon è una persona semplicemente fantastica, che si è messo con grande modestia a disposizione di Serena Sinigaglia per capire meglio – così sostiene, con l’umiltà che solo i grandi conoscono – il linguaggio della scrittura drammaturgica. Già ero stata diretta da Serena Sinigaglia in Buonanotte mamma di Marsha Norman, una produzione della Contrada del 2010: un atto unico toccante interpretato da me e da Marcela Serli; e avevo avuto modo di apprezzare le sue doti, il suo talento, la sua sensibilità. La seconda volta, a Torino, forti della prima esperienza, è stato ancora più appassionante lavorare insieme. Purtroppo, come capita spesso nel teatro italiano, l’esperienza di 6Bianca, così faticosa ma innovativa e speciale, non ha avuto il proseguimento che meritava. Comunque, al di là di queste considerazioni, stimo molto Serena, apprezzo e condivido la sua idea di teatro.

D.: C’è più verità nella rappresentazione teatrale o in quella della vita quotidiana?

Nella rappresentazione teatrale naturalmente!!! O almeno in un certo modo di fare teatro. Invece nella vita quotidiana, specialmente in quella pubblica, vedo recitare sempre di più e malissimo.

Sul palcoscenico non si può barare: la falsità salta agli occhi!

D.: Cosa ti commuove?

Mi commuovono tante cose: sono sempre di più, perché – come sai – con l’età si diventa più fragili. In teatro, mi commuove la passione sincera di certi giovani attori, l’impegno e la fatica che dedicano a un lavoro così difficile e così poco remunerato, il che mi fa sperare nel futuro. Nella vita, mi commuove tutto ciò che percepisco essere debole o indifeso: i bambini piccoli, le persone timide, anche i cuccioli di animale; ma la commozione, a volte, si tramuta in sofferenza quando vedo queste creature in balìa di “custodi” imbecilli.

D.: Cosa ti indigna?

M’indigna la superficialità, la presunzione, la violenza (sugli umani e sugli animali), il poco rispetto dell’altro, il cui primo segnale è la maleducazione, che però nasconde qualcosa di ben più grave, qualcosa che ha a che fare con un certo degrado sociale.

D.: Cosa ti diverte?

Mah, chi lo sa! Non ho un codice preciso. Credo che il senso dell’umorismo cambi con le varie fasi della vita. Comunque apprezzo molto l’ironia intelligente, ma mi fanno ridere anche le vecchie comiche o qualche bravo clown… dipende. In teatro, è quasi sempre la situazione che mi fa ridere e non la singola battuta o, come spesso accade purtroppo, la parolaccia facile.

D.: Progetti per il futuro?

Certo, sempre e tanti, altrimenti mi rattristo e comincio ad accorgermi che certe cose non le posso sognare più! Per quanto riguarda il lavoro devo dire che c’è tanto teatro che mi aspetta.

D.: E la TV?

Me lo chiedono spesso. Niente TV per ora, ma non ne soffro perché è il teatro la mia vera passione e, finché la salute me lo permetterà, continuerò a recitare sul palcoscenico, con l’amore di sempre.