IL FILO DELLA CORRENTE

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La storia tra rancore e cura.

di Luca Zorzenon

 

 

La rancura di Romano Luperini (Mondadori, 2016) è un romanzo che percorre la storia italiana dal fascismo ad oggi nell’avvicendarsi di tre generazioni di padri e figli. In esergo i versi di Montale dagli Ossi: «E questa che in me cresce/è forse la rancura/che ogni figliuolo, mare, ha per il padre». Tre le sezioni: “Memoriale sul padre” (1935-1945), “Il figlio” (1945-1982), “Il figlio del figlio” (2005). Nelle prime due Valerio racconta la storia del padre Luigi e narra la sua vita.

Nel tempo della memoria e nell’esercizio della scrittura Valerio scioglie il rancore che ha caratterizzato il rapporto con il padre in un atto doloroso di cura: «Come se la sua immagine, quale si è impressa in me bambino al suo ritorno dalla guerra, fosse deflagrata allora in tanti frammenti e io non riuscissi più a collocarli al loro posto.[…] Scrivo per farmi perdonare il rancore che ho avuto per lui e per riconciliarmi con la sua figura.»

La terza parte, dentro una sorta di neutralità del punto di vista narrativo, racconta di Marcello, figlio di Valerio, che alla morte del padre ne rifiuta l’eredità storica e umana, i valori e gli errori, la forza delle idee e delle passioni e la debolezza umana e gli sbandamenti esistenziali. Marcello immobilizza il rancore e soffoca i moti della cura nella maschera ironica di un inquieto cinismo. Circondato dalla deregulation civile, dall’odierna dissoluzione dei legami storici e sociali, dall’individualismo micrologico, da una politica e una cultura ridotte a spettacolo mediatico, non sa spezzarne l’assedio. Nella figura di Marcello, nel misto di attrazione e ripulsa della casa paterna, isolata nella campagna fumida e ombrosa che la circonda, si consuma così una frattura storica, prima ancora che antropologica, nel rapporto tra le giovani generazioni e la difficile, drammatica eredità del passato e dei padri.

Nel “romanzo del padre” il nucleo forte è costituito dall’esperienza partigiana di Luigi Lupi che Valerio racconta in terza persona sulla base di racconti, documenti scritti e immaginazione narrativa della figura del padre. Di origini contadine, dalla salute fragile, in cerca di riscatto sociale dalla campagna in città, nella professione di maestro elementare, nell’amicizia col fascista “di sinistra” Nullo, nel matrimonio con la figlia del direttore didattico, Luigi vede nella guerra anche un modo di risolvere le sue inquietudini interiori e il grigiore della vita piccolo borghese. Ufficiale dell’esercito fascista di occupazione della Slovenia e dell’Istria, dopo l’8 settembre matura una decisiva rivolta interiore e politica, spiana il mitra contro il “tutti a casa”, si unisce ai battaglioni partigiani italo-sloveni e ne diviene un comandante militare. Conosce le atrocità della violenza, la drammatica complessità della lotta di liberazione ai confini orientali, rincontra l’amico di un tempo, il fascista Nullo poco prima della sua fucilazione per crimini di guerra contro le popolazioni slave. Luigi, braccato dalla caccia dei nazifascisti, nella notte si orienta con le stelle: il padre contadino gli ha insegnato a decifrare lo splendore amorfo e caotico della volta stellata nel disegno di senso delle costellazioni. Il torrente in cui si disseta gli suggerisce l’immagine del “filo della corrente” che ognuno deve saper riconoscere per impadronirsi del senso della propria vita e di quello dei destini collettivi e non lasciarsi travolgere dalla fiumana della storia.

Il “romanzo del figlio”, in cui Valerio racconta di sé in prima persona, si avvia dal ritorno di Luigi finita la guerra, da quell’abbraccio sulla porta di casa, intriso di trionfo e violenza, entro cui il figlio conosce la prima volta il padre e da cui si originano il conflitto e il rancore. Dall’infanzia all’adolescenza fino alla prima maturità quella di Valerio è la storia di un’ educazione flaubertianamente mancata lungo gli anni del centrismo, del movimento del ’68, dello stragismo neofascista e della lotta armata brigatista. Accompagnato dal declino psicologico e dallo smarrimento politico del padre, fino al suo drammatico epilogo, Valerio non coglie il suo “filo della corrente”, il suo romanzo di formazione non trova né negli affetti privati né nell’impegno in diverse formazioni politiche della sinistra l’autenticità di una vita che alla liberazione interiore unisca quella dei destini collettivi. Nell’immagine del corpo di Moro esanime nella bauliera si consumano insieme le storie di Luigi maestro elementare e partigiano e di Valerio professore universitario e militante comunista. Un possibile ancorché difficile raccordo tra la generazione della Resistenza e quella delle lotte politiche e sociali degli anni ’60 si infrange. Nel suo desiderio di liberazione dal padre Valerio si trova a ripercorrerne le tracce: come era capitato a Luigi con Nullo, rincontra l’amico Ottavio poco prima che egli si costituisca, e ne ascolta la confessione del tragico sbaglio della sua scelta della lotta armata. Deluso dall’esperienza politica, solo, nella casa isolata nella campagna, Valerio sogna di suo padre «morto che mi camminava a lato, spalla a spalla su un viottolo di fango rappreso. “Posso venire” mi diceva “ad abitare con te?” ».

Se nel romanzo prevalgono verismo e pessimismo (per ricordare un titolo della lunga storia di critica verghiana del Luperini studioso) ciò non avviene però in forme di desolante ripiegamento e di fuga nel privato ma (e forse qui vale molto ancora la lezione di un Verga “moderno” e del Flaubert dell’Education) come lucida analisi critica delle contraddizioni della “fiumana” del progresso storico che escludono facili fiducie in concluse processualità dialettiche.

Nel romanzo Luperini alterna terza e prima persona, obiettività dei fatti storici e punto di vista soggettivo. Se nel racconto di Luigi partigiano o dell’esperienza politica di Valerio la narrazione si avvale anche del referto storico e trova forme di intensità realista, sovente drammatica nella tesa ritmicità prevalente della paratassi, le memorie dell’infanzia e dell’adolescenza non mancano di tensioni ad un lirismo asciutto e icastico, la prosa si avvale di echi della migliore narrativa toscana del ‘900, tra Tozzi e Bilenchi. Del primo, nel segno del conflitto infantile col padre, ritornano le immagini crude del particolare a fuoco ravvicinato che si carica di significati psicologici (valga per tutte quella dei paurosi stivaloni militari del padre che schiacciano il passerotto con cui il figlio gioca); del secondo certi momenti di tersa eppure inquieta, turbata liricità nel segno, piuttosto, del rapporto con la madre e con la natura. E, dentro l’infanzia, qualche “occasione” in cui oggetti della più minuta quotidianità sbalzano al rilievo di epifanie (illusorie) di un senso compiuto e felice delle cose e della vita: gli “scaldini” dal tepore maternio nel letto gelato, gli “archetti” costruiti con pazienza assieme al padre, a sfiorare una volta la felicità di un rapporto di affetto e stima.

La rancura di Romano Luperini è un romanzo che innesta il conflitto antropologico fra padri e figli su una tormentata idea del movimento storico collettivo. Dentro la Storia, tra padre e figlio si allaccia una complessa dinamica di tensione alla competizione e alla frattura e di movimento ciclico inverso, del ricorso e della ripetizione. Il movimento della Storia si rivela un intreccio spesso indecifrabile di iniziativa cosciente del soggetto e di casualità dei fatti e delle scelte, di tensione alla rottura e di cogenza della ripetizione, di forza delle idee e di umana fragilità del corpo nella malattia che lo consuma e lo annienta

Tra le letture della formazione umana e storica di Valerio, La morte di Danton di Büchner ha il valore centrale del richiamo al conflitto tragico tra dovere e rigore della rivoluzione, con la sua componente di violenza, e aspirazione alla realizzazione di un destino umano di felicità della persona. Il tentativo di ridurne la polarizzazione avvia padri e figli verso un destino di solitudine. Il mito di Shéhérezade gli ricorda che raccontare è questione di vita o di morte, e ancor più del dubbio se sia questione dell’una oppure dell’altra. Sono i personaggi femminili che accompagnano Valerio in queste letture e nella scoperta che esse hanno a che fare anche con i destini personali e generali del loro tempo storico. Figure di donna con cui, nel “suo romanzo”, Valerio (come per certi versi il padre Luigi) ha rapporti sempre difficili, oscillanti tra desiderio e fuga, aspirazione alla responsabilità e irresolutezze irresponsabili: donne che (dalla figura della madre Dora, alle giovani libertarie e femministe del ’68, alla figlia Serena, alla misteriosa Claudine) spesso alludono, nelle loro scelte di esistenza difficili e dolorose, ad una “parte migliore” della vita e della storia, sempre amaramente soffocata.

Nella terza parte, che soffre di un approfondimento psicologico meno intenso nella costruzione dei personaggi e appare meno risolta anche nelle scelte stilistiche e compositive, a Serena, sorella di Marcello, pare affidata la speranza di riallacciare il rapporto con la figura paterna. Da ultimo si ripensa così anche alla bella figura di Dora, sposa del partigiano Luigi, madre di Valerio: al suo coraggio doloroso nell’attraversare con forza la Storia, anche violenta, dentro il conflitto, tra “rancore” e “cura”, di padri e figli.