“GOLGATHA” (GOLGOTA) DI PETER SCHMITZ

Il nome di Peter Schmitz dice assai poco, ne siamo convinti, anche ai maggiori esperti di letteratura di guerra. Lo vede nascere, nel 1887, Eupen, un villaggio a pochi chilometri da Aquisgrana (Aachen), sul confine belga, e facente allora parte, per eredità prussiana, del Reich tedesco. Schmitz ha da poco iniziato la sua attività artistica quando scoppia la guerra, e il ventisettenne, sedotto dalla propaganda e trascinato dagli entusiasmi di un agosto, quello del ‘14, cupamente ‘radioso’, corre ad arruolarsi nell’esercito imperiale ; la prima destinazione è sul fronte della Champagne, quindi una lunga sosta negli ospedali militari per curarsi dal tifo. Nel ’16 è a Verdun, dove viene promosso sergente e quindi ferito. Degradato, così i suoi biografi, per aver difeso una francese dei territori occupati dalle avance impertinenti di un ufficiale, partecipa alla battaglia della Somme e riottiene, con la croce di ferro, il suo grado.
Nuovamente in ospedale per una crisi di nervi, viene posto in congedo nel gennaio del 1918. La fine della guerra fa avanzare i confini del Belgio di qualche chilometro verso ovest, conglobando anche Eupen: un’esperienza di ‘confine mobile’ (fenomeno ben noto dalle nostre parti) che educa Schmitz al relativismo delle appartenenze, mostrandogli l’assurdità della guerra fra i popoli. Si impegna da allora su un altro fronte, quello del pacifismo, e con particolare dedizione nella misura in cui prendono il sopravvento, nella vicina repubblica tedesca di cui condivide la lingua e conosce il lato oscuro, il militarismo e lo sciovinismo. Una sua attività di particolare natura, coordinare operazioni
di spionaggio nel III Reich, e di sostegno a transfughi di religione ebraica ne fa un sorvegliato speciale della Gestapo: quando nel maggio del 1940 l’esercito di Hitler invade il Belgio la tomba di Schmitz, che è morto nel 1938, viene profanata dagli invasori e un anno più tardi sua figlia è internata in un Lager. Fin qui nulla che possa veramente interessarci, in una vita pur densa di vicende e spesa, chi vorrà negarlo ?, per la buona causa. Aggiungiamo, per venire al nostro tema, che nel Belgio occupato i tedeschi distruggono tutte le copie che riescono a rastrellare di Golgatha, il romanzo di guerra che Schmitz aveva dato alle stampe, in una prima versione, nel 1931, sulla rivista L’Invalide, edizione del Belgio orientale, e quindi, in volume nel 1937, con il titolo Golgotha – Ein Kriegsroman, per i tipi della Paul-Kaiser-Verlag di Eupen. Inutile dire che l’anno di pubblicazione, con il nazismo trionfante, non lasciava margini in Germania per la diffusione e rendeva impossibile, non dico il successo, ma nemmeno la discussione, in sede critica, di un libro assolutamente contro-corrente. Fortunosamente strappato all’oblio Golgatha rivede oggi (2014) la luce, nella collana «storia e pace» della casa editrice Donat di Brema, con prefazione e cura di Philippe Beck, e postfazione di Helmut Donat. Chi scrive non si illude che una casa editrice italiana voglia assumersi il compito di tradurre e pubblicare il romanzo di Schmitz (eventualità possibile solo se – scartiamo a priori le grandi case cui sta a cuore solo il fatturato – se ne innamorasse qualche piccolo editore avventuroso), resta il fatto che presentare al pubblico italiano, con qualche parola almeno, un libro che appartiene di diritto al grande canone del romanzo di guerra, appare insieme un dovere e un piacere. Si tratta dunque, per entrare subito in argomento, di un romanzo a episodi (16, per l’esattezza, che coprono un periodo dal 1914 al 1916), caratterizzato da un andamento particolare, poiché alterna il vero e proprio racconto a momenti in cui l’Io autorale erompe in riflessioni, giudizi, invettive, gli eventi e le pause discorsive che li commentano, alla luce di un rifiuto della guerra sempre più netto e consapevole. Il romanzo, va ancora detto, è in prima persona e assume la forma del diario, indicando con una certa precisione i luoghi mentre la scansione del tempo che prevale è quella delle stagioni, quasi a semplificare il calendario, in un contesto che riduce l’esistenza a ritmi elementari e sempre uguali: le attese in trincea dell’attacco nemico o la preparazione al proprio, i pasti, il sonno, i turni di riposo, finendo quasi per negare la nozione di tempo comunemente intesa. Philippe Beck, che ha firmato l’introduzione, ci informa che facevano parte della biblioteca personale di Schmitz tanto Guerra di Renn che All’ovest niente di nuovo di Remarque, avanzando inoltre l’ipotesi della conoscenza da parte dell’autore di Le croci di legno (1919) del francese Dorgelès. Analisi più approfondite dovrebbero inoltre valutare la possibilità della lettura del Soldato Schvejk da parte di Schmitz, che, quasi in forma di controcanto burlesco per allentare la tensione e allontanare l’onnipresente ombra della morte, inserisce nel racconto parentesi comiche prese dalla vita di retrovia: gli episodi del soldato che cade nel pozzo nero della latrina da campo, del tiro birbone giocato al sottufficiale dell’ospedale, o del furto delle galline del maggiore, ecc. ecc., aprono brevi spiragli di luce in un libro dalle tinte cupe, e che non mostra alcuna reticenza, differenziandosi da molta narrativa di guerra, nel descrivere corpi e volti contratti dalla morte o storpiati in modo orribile dalle ferite. Nulla toglie al grande fascino del libro una certa prevedibilità di situazioni (la corsa disperata per portare un commilitone, gravemente ferito, all’ospedale da campo, e salvargli così la vita, oppure la scoperta del tradimento della moglie da parte di un soldato che, senza preavviso, giunge a casa in licenza: sacrificherà poi la vita cedendo a un camerata ferito la maschera anti-gas), come pure certe parentesi, nel gusto degli anni Trenta e certo giustificate dalla fede pacifista dell’autore, dove l’espressione prende una intonazione didascalica e scade nella declamazione, come, lo vedremo, nelle pagine finali, un vero inno alla pace fra i popoli. Per altro, acquisita ormai, anche per merito dei narratori, una interpretazione della Grande guerra come scontro di materiali («i pendii della Champagne sono diventati il Golgata degli eserciti che si contrappongono nelle trincee di terra gessosa. Qui la guerra è un assassinio organizzato, uno scontro di materiali, una lotta impersonale in cui l’esistenza singola perde ogni valore» – Golgatha, p. 143), Schmitz riesce a evocare come pochi altri scrittori del suo tempo il senso di oppressione e la disperazione di chi si sente condannato a morte dentro la trappola della prima linea, la crescente atonia di uomini ridotti alla sola esistenza animale, i «trinceristi», rintanati durante i bombardamenti nei loro loculi, da cui riemergono al calar della notte come un popolo di ombre.
Una cronaca di nuda sopravvivenza, con uomini rassegnati a vivere come all’età della pietra, alla deriva in un lugubre paesaggio di rovine che cancella, in senso proprio e figurativo, tutti i colori del mondo e con essi ogni gioia di vita: tronchi d’alberi bruciacchiati, crateri anneriti, cadaveri e carogne in putrefazione («ci ubriachiamo e ci raccontiamo barzellette oscene, negando la nostra umanità per non impazzire» – p. 250). Una resa quasi, potremmo osare, di carattere «filmico»: a tratti la guerra diviene assordante, gli scoppi, i lampi, le schegge, il fumo, i lamenti dei feriti, (e le loro preghiere, gridate o mormorate) riempiono tutto lo spazio mentale del lettore, e il miracolo della grande letteratura ci trasporta là dove non vorremmo essere, testimoni oculari della mostruosa carneficina. Giustamente Beck suggerisce che l’Io del romanzo sottintenda e spesso lasci percepire un «noi», il noi del cameratismo, che è un sottoprodotto positivo dell’esperienza di guerra, ma che non basta certo a giustificarla, come invece agli occhi di altri scrittori: è lo stringersi insieme di uomini esposti all’orrore, è una briciola di quella solidarietà fra creature che rende degna la vita dell’uomo e che con ben maggiore energia e migliori risultati la pace saprebbe esaltare. Nel sangue e nel fango, tra vomito e feci, fame e sporcizia, morsi di pidocchi e privazioni infinite, la guerra non ha catarsi, sempre e comunque degradante non risparmia niente e nessuno (tremenda a proposito la figura d’intreccio della francese Arlette, che il protagonista incontra, ragazza spensierata di un villaggio occupato, e che finisce per guadagnarsi il pane in un bordello per soldati, o la visione del paese natale di Paul Bürger, diventato una Mecca del mercato nero): il cameratismo, la Kameradschaft, non è un suo dono, ma un atomo di residua umanità che neppure la prova più terribile riesce a intaccare («l’orribile guerra non ha potuto assassinare l’amore. L’amore dell’uomo trionfa sull’orrore e sulla morte» – p. 129). Se è vero, come ha dimostrato Eric Leed (Terra di nessuno – Esperienza bellica e identità personale nella Prima guerra mondiale) che l’esperienza di guerra è stata segmentante e disgiuntiva (separando in modo netto un prima e un dopo, un qui e un altrove, un io o un noi dagli altri), colpisce come Schmitz declini questo tema: i soldati e gli ufficiali subalterni contrapposti agli ufficiali superiori e di stato maggiore, la «carne da cannone» delle prime linee agli imboscati della sussistenza o di retrovia, i soldati che vivono nella penuria e coltivano il valore della reciproca lealtà e i furfanti che si ingrassano col mercato nero. Verso il «nemico» invece (der Feind, der Franzman) non una sola parola d’odio: risoluto a difendere la pelle in trincea con tutte le armi a disposizione (il romanzo è finemente chiaroscurato e per un attimo ci mostra anche Bürger preda della follia guerriera: «sono posseduto da una pazzia che non trova alcuna spiegazione: solo uccidere, difendersi, finché il cuore batte» – p. 185), è tuttavia proprio grazie al «nemico» che, nei giorni di riposo in territorio occupato, egli vive le sue esperienze di più ricca umanità: «Di sera tardi suona l’allarme. In gran fretta si riempiono gli zaini. Saluto Madame Bourgois. L’addio commuove la vecchia signora. ‘Pauvre garçon!’ continua a ripetere, e come balbetto il mio ‘grazie’, succede qualcosa di inaspettato. Gli occhi della vecchia signora si inumidiscono, prende la mia testa fra le sue mani che tremano, fra le sue mani avvizzite, e mi bacia sulle guance. ‘Pauvre garçon!’ – io so, l’anziana francese non ha baciato il nemico, ha baciato i combattenti di tutte le nazioni. Ha baciato una generazione di aitanti ragazzoni condannati a morire strangolati dalla mano fredda della morte. E questo bacio della vecchia signora francese diventa la benedizione di mia madre lontana» (p. 122). La consapevolezza di un’esistenza bruciata è un motivo che ritorna, e pone un’amara ipoteca sul futuro dei sopravvissuti: «la notte chiara di stelle mi riempie di desideri insensati di pace e felicità; e mi rende indicibilmente triste, perché so che la guerra mi brucia l’anima, che con i miei 24 anni sono diventato un vecchio e che di essa, la guerra, non mi libererò mai più. Potrò mai aver di nuovo stima dell’uomo? Sono un’esistenza perduta della guerra mondiale» (p. 232). Schmitz non ha raccontato del ritorno a casa del suo alter ego, Paul Bürger; dove sono i camerati del ’14, si chiede in una delle ultime pagine: le loro ossa imbiancate giacciono nei boschi delle Ardenne, sulle sponde della Marna e della Mosa, sui pianori gessosi della Champagne e della Picardia. Essersi salvati impone un dovere di testimonianza, e ciò che a Schmitz- Bürger interessa narrare è la guerra, quell’incubo da cui i reduci non sapranno mai liberarsi, e forse, nel caso specifico, la dolorosa palestra che spiega il suo formarsi a un’idea dell’uomo che esalta i valori della vita e trasforma lo scrittore in un irridicibile nemico del militarismo, senza o con croce uncinata. In una sintonia che sorprende con il messaggio di Ritorneranno del nostro Stuparich, Golgatha si chiude con frasi di speranza per l’umanità, per il cui futuro Schmitz si è impegnato con tenacia e abnegazione, spegnendosi prima di assistere alla nuova fiammata dell’odio: «Chiederemo con forza: pace sulla terra! Giù le armi! Siate fratelli, popoli del mondo, in una comunione di pace, affinché il nome: uomo significhi amore universale e bontà. E verso questa meta ci accompagneranno i morti della guerra […] trionfa in noi la fede negli uomini di buona volontà e nella forza del loro amore» (pp. 278-9).

 

di Fulvio Senardi