Govoni: poeta contadino e futurista mancato

Govoni era il nostro poeta, più rurale che bucolico, lui stesso contadino abituato alla durezza della campagna, “poeta fluviale”, non solo per la sua irruenza verbale ma anche per la sua familiarità con il nostro fiume

di Diego Marani

 

Corrado Govoni per noi era il poeta di casa. Non solo perché al suo paese, Tamara, io ci andavo in bicicletta e lungo lo stradone polveroso li incontravo «i fienili grandi come chiese» delle sue poesie. Ma anche perchè i pollai che lui descriveva nelle sue strofe erano come quello di mia nonna con «le belle galline/ che portano in testa/ un rosso fazzoletto di festa/ come le contadine/» e quel gallo che in una sua strofa cantava solo nella nebbia riempiva di tristezza anche noi. La sua era la nostra campagna contro la “città pentagona” dei troppo sofisticati poeti cittadini, primo fra tutti il cervellotico De Pisis che nel suo memoriale di Ferrara elenca le 100 meraviglie mentre Govoni proclama di avere sempre amato «tutte le cose tristi della religione, le cose tristi dell’amore, le cose tristi del lavoro, le cose tristi delle miserie». Govoni era il nostro poeta, più rurale che bucolico, lui stesso contadino abituato alla durezza della campagna, “poeta fluviale”, come fu definito, non solo per la sua irruenza verbale ma anche per la sua familiarità più con il cupo e fangoso nostro fiume che con il luminoso e ridente mare. Govoni con la sua poesia innobiliva la minuta vita contadina, la «fetta calda di polenta/ a uno storpio che suona una ghironda triste e lenta”/, “un pendolo di legno arrugginito/ con un mazzo di rosolacci scrostati sulla cimasa/ ed i pesi d’ottone carichi di sabbia/».

Completava la nostra familiarità con il poeta una cartolina indirizzata a mio padre che faceva da segnalibro della grande raccolta di Mondadori del 1959 curata da Giuseppe Ravegnani, con un’immagine del Lido dei Pini, tanto simile ai nostri lidi ferraresi, dove Govoni era andato a vivere, nel tentativo di avvicinarsi a Roma come gli altri illustri ferraresi dell’epoca. Ci chiedevamo cosa ci fosse andato a fare, lui così attaccato alla sua terra, tanto lontano dalla «piccola chiesa grigia (in un paesello/ dal nome dolce come quelli della Bibbia),/ con tanti quadri impolverati ed un piccolo organo di stagno». E lo spiega bene questo dissidio Matteo Bianchi nel suo volume Il lascito lirico di Corrado Govoni. Dai crepuscolari sul Po agli influssi emiliani, subito dall’attacco della prefazione quando cita il poeta: «Credo che pochi scrittori italiani siano rimasti, come me, attaccati con fanatica fedeltà, in poesia e in prosa, agli interessi, alle sollecitazioni e alle suggestioni della propria terra natìa […]».

Govoni resta ancora oggi un poeta poco conosciuto e sempre lasciato ai margini della poesia italiana, come dice Bianchi, trattato sempre con diffidenza dalla critica che lo accusa di «non avere mai sostato abbastanza su uno stile per appropriarsene». Ma forse è proprio questa peregrinazione da uno stile all’altro a fare l’originalità di Govoni, lui che visse a cavallo di due secoli senza mai appartenere a nessuno dei due. L’inganno più grande di cui fu lui stesso vittima fu forse il suo credersi a un certo punto futurista. Non c’è nulla di elettrico nelle sue Poesia elettriche dove pare di vedere più lucignoli di candela struggersi nelle cucine contadine che bulbi guizzanti di elettricità. «Per un dolce, povero morto” ha ben poco richiamo futurista quando descrive il bambino condannato dalla malattia che coltiva il decadente gioco di un camposanto composto di francobolli. «Ti mancava a compire il camposanto/ un solo francobollo del Perù/ o del Congo. Chissà mai s’era blù?/ Chissà s’era color d’amaranto?/ »Nella poesia Vecchie soglie di porte infradiciate l’elettricità ancora non s’accende ma «qualche lucciola greve di rugiada fa lume a un triste grillo canterino».

Il crepuscolarismo certo si confece di più al poeta copparese, e Bianchi che ben conosce l’universo ferrarese, ci tiene alla distinzione fra città e contado, dove Tamara è nel comune di Copparo. Con il crepuscolarismo Govoni si ritrovò nella tradizione poetica leopardiana poi ripresa da Pascoli e Gozzano, con in più l’ironia che a questi ultimi mancava e qui forse il suo manifesto è il mao del crepuscolo ferrarese, un’istantanea di interno ferrarese, proprio una Polaroid di quelle che ingialliscono subito, dove ancora il massimo dell’elettricità è «il polipo del lume».

Fa specchio al ferrarese quell’altro crepuscolo sul Tevere e Bianchi ha ragione a mettere in parallelo quest’altro paesaggio govoniano che però il poeta tratta come straniero. Più famigliare gli è un altro crepuscolo, quello sul Po dove «Come un frutto maturo cade il giorno,/ Dal ponte che cavalca il fiume suona un corno./ »E qui ci scappa anche un’impennata di futurismo: «Con uno strepito di gran cascata/ un treno fora il vuoto sulla via ferrata./ I rumori pel vento stenografo/ sfuman come figure d’un cinematografo./»  È qui anche che Govoni più facilmente cade nell’accusa che gli aveva mosso Sanguineti nel 1983 di usare l’allusione come mezzo e l’evocazione come fine, trasformando il poeta in prestigiatore. Ma Govoni si era già accorto che l’arte poetica non incanta più e che la poesia stava perdendo il suo pubblico. Un Ariosto senza la corte estense lo descrive Bianchi con un’immagine efficace che introduce così la tematica della corte come luogo di ascolto della poesia nella Ferrara rinascimentale, quel mondo ormai scomparso della perfezione classica dove vigeva «la certezza che bello e vero s’identificassero”. Arriva il tempo del consumo e della moda, della «reificazione dell’essere umano come anticamera della globalizzazione dei sogni”, scrive Bianchi.

Inizia qui la parte forse più interessante del volume, tutta dedicata agli eredi di Govoni nella poesia ferrarese. Un brulicare di nomi e di testi che sono tutte testimonianze di come, al riparo delle mura cittadine, in quella «Vecchia città morta/ simile a quelle delle antiche stampe» la pratica dell’arte poetica non sia mai morta ma si sia invece oggi arricchita di voci nuove che a Govoni si possono ricondurre per tematiche e approccio poetico, inglobando argomenti nuovi dell’attualità cittadina, come il terremoto del 2012. Là fuori dalle mura, nella campagna ferrarese ormai svuotata, dove i capannoni hanno preso il posto dei fienili, i pollai sono scomparsi e invece imperversano puzzolenti gli allevamenti di polli, dove le chiese sono chiuse e pericolanti, di poesia non ce n’è più e anche la Tamara di Govoni oggi accoglie come rudere non più una chiesa ma una discoteca, chissà la definitiva dismissione del futurismo.

Nelle “città pentagona” invece la poesia prospera e interroga, con una vitalità inattesa e Bianchi vi partecipa con la sua attività di critico e di poeta, portando avanti chissà una nuova corte estense, quella più evoluta e sofisticata che è “frutto di un vissuto generazionale che si autoseleziona e si tramanda”, come afferma Paolo Cerchi, citato da Bianchi, e si incarna «nel gentleman che dialoga nelle accademie, nell’honnête homme che conversa nei salons galanti, perfino nel libertino della respublica literarum che unisce l’Europa quando le forze politiche e religiose sembrano dividerla in modo irreversibile».

A noi della campagna non resta invece altro che coltivare la memoria di quando con Govoni siamo stati terra di poesia e con lui rimemoriamo «le cose tristi, la musica girovaga, […] le preghiere delle suore, i mendichi pittorescamente stracciati e malati, i convalescenti, gli autunni melanconici pieni di addii, le primavere nei collegi quasi timorose, le campane magnetiche […], le rose che si sfogliano sugli altarini nei canti delle vie deserte in cui cresce l’erba».

 

 

 

Matteo Bianchi

Il lascito lirico di Corrado Govoni

Dai crepuscolari sul Po agli influssi emiliani

Ed. Mimesis, Milano-Udine, 2023

  1. 198, euro 18,00