Statue, da qui all’aldilà

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La scultura funeraria nei sette cimiteri di Trieste: una rassegna fotografica

di Roberto Curci

 

Battezzata via via Città della Scienza, del Caffè e della Barcolana, Trieste potrebbe fregiarsi pure del titolo di Città delle Statue, a prescindere dalle discusse new entry di D’Annunzio, Ressel e dell’anonimo prelato benedicente collocato con un blitz dinanzi a Sant’Antonio Nuovo. Da molti decenni, o da qualche secolo, lo attestano non tanto i monumenti “ufficiali” quanto piuttosto le innumerevoli opere scultoree inserite in palazzi di gusto neoclassico, Liberty o variamente eclettico, spesso ignote al cittadino residente, indaffarato e frettoloso, o solamente distratto e incapace di sollevare lo sguardo dal marciapiede (malconcio) su cui cammina.

Molte statue se ne stanno infatti ai piani alti, o addirittura appollaiate sulle sommità. Fanno parte di un frastagliato paesaggio urbano che sfugge ai più, ma non a certi turisti attenti e curiosi, talora sorpresi col naso all’aria dinanzi a Palazzo Terni Smolars, a Palazzo Kalister, a Palazzo Vianello o a Casa Polacco. Vedono, loro, quello che i triestini non vedono o danno per scontato. Chissà quanti si accorgono delle sei statue allegoriche a coronamento dell’attico di Casa Chiozza e dei sei bassorilievi angolari sottostanti, opere di cui perlomeno è noto il nome dell’autore, il genovese Gigi Supino.

Sono riflessioni propiziate non solo dal recente volume di Paolo Possamai, Nettuno e Mercurio. Il volto di Trieste nell’800 tra miti e simboli (Marsilio Arte), ma ancor più dalla mostra fotografica allestita dai Civici Musei nella Sala Selva di Palazzo Gopcevich e visitabile fino al 16 luglio (meno il lunedì). S’intitola Memorie nel marmo. I sette cimiteri di Trieste, ed è curata da uno specialista dell’argomento quale Luca Bellocchi e da Marino Ierman, autore di tutte le foto esposte.

Che, oltre ai luoghi del dolore, della tristezza, del ricordo e del rimpianto, i cimiteri possano essere autentici musei a cielo aperto è pacifico soprattutto per chi non ha alle spalle lutti recenti da elaborare. E così è a Trieste, che pur non vantando camposanti monumentali come quelli di Milano, Genova, Roma, Torino e altre città italiane, propone a chi è capace di vedere – in quello che, a ben pensarci, è un rasserenante vagabondaggio all’aria aperta – una galleria di arte scultorea amplificata dal fatto che per l’appunto i cimiteri cittadini sono ben sette: oltre al cattolico, il greco-orientale, il serbo-ortodosso, l’evangelico, l’ebraico, l’islamico e il militare.

«Sono chiara testimonianza di una società multireligiosa, multietnica e multiculturale, caratterizzata da una spiccata convivenza tra genti diverse: regole che valgono sia nella città dei vivi sia in quelle dei morti» afferma correttamente il dépliant che affianca l’elegante catalogo della rassegna. Dunque la religione qui sposa l’arte e sposa la storia, consentendo di ricostruire per frammenti il complesso mosaico sociale della Trieste che fu, specialmente attraverso i sepolcri delle grandi famiglie del commercio, dell’industria, dei traffici mercantili, in altre parole l’élite cittadina dell’Ottocento e del primo Novecento.

Furono queste famiglie a potersi concedere di affidare la cura delle loro ultime dimore a scultori di fama nazionale quali Donato Barcaglia (tombe Rittmeyer e Girardelli), Pietro Canonica (tomba de Reinelt), Pietro Magni (tomba Sartorio). Ma è a una pattuglia di scultori nati o vissuti a Trieste che si deve la maggior parte dei monumenti funebri ornati da delicate figure di fanciulle dolenti, presenti nel cimitero cattolico e nel piccolo ma altamente suggestivo cimitero greco-ortodosso. Qui si rimane ammirati dinanzi all’opera di Giovanni Mayer (tomba Paleologo in primis, ma anche tomba Marco e tomba Scaba) mentre il suo “rivale” in fatto di scultura funeraria, Giovanni Marin, propone a sua volta una dolce figura femminile accasciata sulla pietra tombale della famiglia Sofianopulo.

S’intende che non rimase circoscritta all’ambito cimiteriale la produzione sia di Mayer (1863-1943) sia di Marin (1875-1926). A quest’ultimo, in particolare, va attribuita la ricca decorazione scultorea di Palazzo Vianello e quel singolarissimo gruppo policromo che è la cosiddetta Fontana dei leoni nell’atrio del palazzo ex Ras, oggi divenuto albergo di lusso. Ne scrisse nel 1922 Salvatore Sibilia nel suo Pittori e scultori di Trieste, ammirando «il nudo del guerriero rosa gandolia, l’elmo in bronzo argentato con ageminature e pietre dure, il drappo in broccatello di Siena, la roccia in pietra di Orsera e i leoni in rosso d’Asiago».

Fra questi e altri scultori triestini con almeno una presenza nei locali cimiteri (citando alla rinfusa: Camaur, Canciani, Depaul, Pezzicar, Rathmann, Rovan, per arrivare a Franco Asco e Marcello Mascherini) fa parte per sé stesso un artista di origine dalmata ma vissuto lungamente a Trieste e grande animatore delle imprese, anche beffarde, del locale Circolo Artistico: Ivan Rendić (1849-1932). A lui Luca Bellocchi ha dedicato nel 2021uno studio esemplare (Ivan Rendić. Rotte adriatiche, IRCI-Edizioni Mosetti), ricostruendone l’attività lungo l’intera “rotta” adriatica, da Trieste a Fiume, a Zara, alla sua isola nativa di San Pietro in Brazza.

«Legato alla tradizione di certa statuaria verista – scrive Bellocchi –, sviluppò in seguito derive secessioniste, che lo resero apprezzatissimo interprete tanto in campo decorativo quanto nella ritrattistica, tanto per le commissioni pubbliche quanto per quelle private, fino a giungere alla statuaria sacra e funebre, campo in cui fu indiscusso protagonista».

Dalla «cultura musiva bizantina» Rendić trasse ispirazione per gli inserti policromi di tanti suoi monumenti. Basterebbero a illustrarne la poetica la tomba Cossovich, nel cimitero cattolico di Sant’Anna, e la tomba Ivanković, in quello serbo-ortodosso di via della Pace: opere in cui scultura e decorativismo policromo convivono armoniosamente, quasi esorcizzando – in nome della vita – la funebre destinazione d’uso.

 

Ivan Rendić

Tomba Cossovich

Cimitero cattolico

di Sant’Anna, Trieste

foto di Marino Ierman