I dagherrotipi di John Ruskin

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Una recente scoperta ripropone il suo importante rapporto con la fotografia

Il dagherrotipo come appunto visivo di ineguagliabile efficacia rappresentativa ed evocativa

di Michele De Luca

 

Nella splendida e coinvolgente mostra dell’anno scorso al Palazzo Ducale di Venezia (“Le pietre di Venezia”, come il titolo del suo più famoso libro dedicato alle architetture della città lagunare), è stato trascurato un aspetto, assolutamente non di poco conto, della versatile personalità di John Ruskin (London 1819 – Brantwiid 1900), personaggio centrale nel panorama artistico internazionale del XIX secolo, scrittore, pittore e critico d’arte, e cioè il suo rapporto con la fotografia, nella forma allora pionieristica del “dagherrotipo”, cioè il primo procedimento fotografico per lo sviluppo di immagini positive dirette, e quindi non riproducibili, messo a punto dal francese Louis Jacques Mandé Daguerre da un’idea di Joseph Nicéphore Niépce e del figlio di questi, Isidore, che venne presentato al pubblico il 7 gennaio del 1839 (giusto 180 anni fa) dallo scienziato François Arago, presso l’Académie des Sciences e des Beaux Arts di Parigi.

“Devo assolutamente andare in Italia”, scriveva nel 1943 nei suoi Diaries, agognando quello che sarebbe stato, due anni dopo, il suo fondamentale viaggio nel Bel Paese, nel corso del quale, ma anche dei successivi in Veneto e in Toscana, ne raccolse ed eseguì un cospicuo numero, che ora, come si raccontava nel catalogo curato per Alinari – Arsenale, da Paolo Costantini e Italo Zannier (I dagherrotipi della Collezione Ruskin, 1986, oramai vera e propria rarità bibliografica, che rimane comunque strumento essenziale per un ulteriore approfondimento; la mostra fu allestita nel Museo Fortuny di Venezia), sono conservati presso le Ruskin Galleries di Bambridge (Irlanda) e il Ruskin Museum di Coniston. Nel 2006, in un’asta, ne sono stati recuperati altri duecento dai collezionisti Ken e Jenny Jacobson.

Come è noto anche grazie ad sua lettera al padre datata 7 ottobre 1845, Ruskin, alla ricerca di un mezzo – da affiancare alla fondamentale osservazione diretta – per potenziare la sua raccolta di dati per lo studio dell‘architettura, acquista dagherrotipi per la prima volta nel 1845 a Venezia (venti lastre da un “povero francese”: per pochi franchi “tutto il Canal Grande dalla Salute a Rialto”); l’anno dopo in un’altra lettera afferma che considera i dagherrotipi “più validi di qualsiasi schizzo del punto di vista dell’informazione” e quindi i propri schizzi semplicemente dei “pro-memoria “. La fotografia fu quindi – scrive Zannier – “anche per Ruskin subito convincente. Se non sotto il profilo artistico, all’epoca ancora da accertare, certamente su quello documentario, che, com’è ovvio, è tuttora considerato un suo fattore specifico e primario, prevalente su quello estetico”. Nel 1849 torna a Venezia dopo aver acquistato un apparecchio dagherrotipico per lavorare insieme al segretario-domestico-fotografo John “George” Hobbes al progetto di “The Stones of Venice”. Annotava il 12 agosto 1846: “I miei disegni sono veri alla lettera – forse troppo letterari – così dice mio padre, così non dice il dagherrotipo, che mi batte lamentevolmente. Mi sono alleato con lui … e ho portato con me alcuni preziosi documenti di Firenze. È certamente l’invenzione più straordinaria del secolo; ci è stata data, io credo, proprio in tempo per salvare qualche testimonianza dal grande pubblico di distruttori”.

Ruskin, pertanto fu tra i primi a percepire l’importanza della fotografia, sia pure per quanto la stessa fosse all’alba della sua vita e che poi avrebbe avuto ben altre fortune per il progresso della tecnica. Il dagherrotipo rappresentò subito per lui per meglio studiare il dettaglio architettonico, molto più di schizzi o disegni, in quanto riduceva lo spazio alla mediazione culturale e assicurava una “copia” più fedele dello stato reale. Divenne quindi per lui principalmente uno strumento di lavoro, che forniva ai suoi studi un supporto tecnico ben più sicuro e ricco di informazioni, oltre che un più scientifico e critico distacco: “ Mi rendo conto – scriveva ad un suo parente nel 1845 – che diversi e singolari cambiamenti sono intervenuti nel mio modo di vedere ora l’Italia. Vi è un interesse reale molto maggiore, la mia visione è assai meno immaginosa o fascinosa. La leggo, come un libro da capire e godere; ma non come un sogno da interpretare. Tutto il fascino romantico se n’è andato, e nulla di ciò che vedo mi fa mai dimenticare di essere nel XIX secolo”.

Giunto a Venezia per studiare Tiziano, Veronese e Bellini, Ruskin cercò di realizzare quante più immagini gli fu possibile delle opere architettoniche che gli apparivano maggiormente in pericolo, in una sorta di febbrile impegno per la realizzazione di un progetto finalizzato a “ricreare” il passato della città lagunare. È a questo punto che “scopre” il dagherrotipo come appunto visivo di ineguagliabile efficacia rappresentativa ed evocativa; per quanto concerne l’arte, scriveva sempre al padre, “vorrei che esso non fosse mai stato scoperto, renderà l’occhio troppo esigente per accettare la semplice manualità del disegno”.

Queste “opere uniche”, eseguite o collezionate da Ruskin, rimangono ora a restituirci immagini straordinariamente affascinanti e irripetibili di alcuni tra i più famosi capolavori architettonici di Venezia, ma anche di Verona, Firenze (tra cui lo stupendo ricamo della trifora di Orsammichele), Siena, Pisa, Lucca (le incomparabili facciate di San Michele e del Duomo, la torre con l’albero di Palazzo Guinigi e la tomba di Ilaria del Carretto), e Pistoia. Si tratta di immagini fotografiche, alcune delle quali particolarmente incisive, altre un po’ sbiadire o graffiate. Ma sono tutte, a parte l’imprescindibile e preziosa valenza documentaria, estremamente evocative e ricche di un fascino unico, oltre che per essere state eseguite o scelte da Ruskin, in quanto rappresentano esemplari rarissimi delle prime forme di “scrittura con la luce”, destinate ad ampliare all’infinito la “memoria dello sguardo” dell’uomo moderno.

A loro lo studioso inglese affidava – come scrive Costantini – “un compito salvifico, di riscatto di un valore perenne, sovra storico, dalla dimensione del Tempo perduto nelle vanità e nelle cecità mondane”. L’invenzione di Daguerre consente di consegnare alla memoria storica “informazioni” che nemmeno il più “dagherrotipico” dei pittori è in grado di fare. Singolare, in proposito, è rimasta la polemica di Ruskin nei confronti del mitico Canaletto, di cui ebbe a scrivere tra l’altro: “Vorrei osservare che non trovo colpa in Canaletto, per la sua mancanza di poesia, di sentimento, di attenzione nel trattamento artistico, o delle altre varie virtù che egli non professa. Egli non professa null’altro che un dagherrotipismo a colori. Ho visto dagherrotipi in cui ogni figura e rosone, o crepa e macchia e fessura è resa su una scala di un pollice, in confronto a una scala di tre piedi di Canaletto. Quale scusa si può adottare per il fatto che egli omette, su questa scala, ogni registrazione di tali ornamenti?”.

Dopo “Le pietre di Venezia”, in cui Ruskin aveva cercato di comunicare una nuova visione delle architetture rivelatagli dal dagherrotipo, il suo interesse si rivolgerà anche verso i suoi limiti riguardo alla resa del colore in architettura, “alimentando però – osserva ancora Costantini – nuove e realistiche riflessioni sullo strumento fotografico valutato nel suo significato espressivo, ma anche nei suoi limiti tecnico-linguistici … Fino al termine della sua vita Ruskin si ritroverà ad esprimere sulla fotografia in quanto strumento rinnovate speranze, qualche residuo entusiasmo, molte scontentezze e ancora indefinite curiosità”.