Il camaleonte e l’ex giramondo

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Storie e mostre di fotografi con un triestino dimenticato

di Roberto Curci

 

È dura, di questi tempi, essere John Malkovich. Lo sa bene l’Ente regionale per il patrimonio culturale del Friuli-Venezia Giulia (Erpac), promotore della mostra allestita al Magazzino delle Idee di Trieste e vittima, come tutti, della paralisi da covid. Lo sanno bene quanti attendevano di ammirare l’attore americano in una straordinaria performance fotografica, ovvero nell’incarnazione dei protagonisti di una sessantina di fotoritratti celeberrimi scattati da celeberrimi fotografi: la Migrant Mother di Dorothea Lange, il Salvador Dalì di Philip Halsman, le gemelle di Diane Arbus, la Meryl Streep di Annie Leibovitz, il Che Guevara di Alberto Korda, i Ken Moody e Robert Sherman di Robert Mapplethorpe, eccetera eccetera, compresi Winston Churchill, Truman Capote, Marilyn Monroe e John Lennon (con Joko Ono).

In ognuno di costoro Malkovich si è identificato con camaleontica, stupefacente abilità mimetica, e così conciato si è offerto all’obiettivo di un altro eccellente fotografo, Sandro Miller, suo compaesano dell’Illinois (l’attore vi è nato nel 1953, il fotografo cinque anni dopo). Ne è sortita una galleria che sarebbe stato bello poter vedere dappresso, e non solo attraverso le molte riproduzioni su giornali e riviste, frutto di un fitto battage che meritava sorti migliori. Ma forse non tutto è perduto: se si guarda al 15 gennaio come possibile, auspicabile riapertura di mostre e musei, covid consentendo, l’Erpac già pensa, comunque, a un prolungamento della rassegna triestina fino al maggio del 2021. Auguri sinceri. (Del resto, sorte simile è toccata a un’altra bella mostra ideata dall’Erpac stesso: “Vienna 1900. Grafica e design”, nel goriziano Palazzo Attems-Petzenstein).

Ma quel che oggi ci preme è far notare come troppo spesso si vadano a cercare altrove, e spesso oltre oceani vari, idee e personaggi che sarebbero quasi a portata di mano. Vien da ripensarci sfogliando un vecchio numero della serie terminale del glorioso Europeo (febbraio 2011). Si intitolava Professione reporter. Raccontare il mondo con la reflex e, accanto ai nomi mitici di fotogiornalisti quali Moroldo, Roghi, Fusar, Scianna, Bizziccari e qualcun altro, dava giusto spazio a un triestino di cui, pare, ben pochi si rammentano. Non certo quando si tratta di immaginare nuove mostre monografiche…

Piero Raffaelli, questo il nome. Nato a Trieste nel 1937, trasferitosi a Milano nel ’64, divenuto fotoreporter giramondo, con un archivio di immagini da far girare la testa: Somalia, il Corno d’Africa nel caos; Israele, la guerra del Kippur; Venezuela, i cercatori d’oro di Las Claritas; Urss, l’invisibile potenza del KGB; e poi Papua Nuova Guinea, India, il Portogallo post-dittatura. Ma anche l’Italia: gli abusi edilizi, la cementificazione e la trasformazione del paesaggio, «di cui nessuno – lamentava Raffaelli – si occupa».

Non è però facile convincere Raffaelli né a ripercorrere i suoi anni da fotoreporter né a fargli parlare delle proprie radici: «Sono andato via da Trieste più di 50 anni fa e, in realtà, tornarci mi farebbe sentire fuori posto e a disagio». Quanto al suo avventuroso mestiere, nell’articolo dedicatogli dall’Europeo diceva: “«Quando sono arrivato in questo giornale, nel 1973, era finita l’epoca d’oro del reportage. Dalla strage di piazza Fontana in poi, l’attenzione della stampa si era spostata sull’Italia. Iniziavano gli anni di piombo e i fatti più interessanti avvenivano tra Milano, Torino e Roma. Contemporaneamente, i settimanali stavano cambiando. Dal grande formato, dai servizi su più pagine con grandi foto, si passava inesorabilmente a pagine più piccole, con pezzi di tre pagine illustrati da due fotine. Niente più spazio per il racconto, e il lavoro dei fotografi era uno spreco. Speravo nel ritorno del tempo dell’avventura, insomma: Life, National Geographic… E mi sbagliavo. Però mi sono divertito a scoprire i fatti, a indagare assieme ai giornalisti».

Così, nel numero dell’Europeo in cui Raffaelli stava in compagnia di ottimi colleghi, accanto ai fotocolor “esotici” c’erano due foto “italiane” in bianco e nero, significative: le donne della famiglia calabrese dei Tedesco a Guardavalle (Catanzaro), dove nel ’74 le famiglie rivali dei Tedesco e dei Randazzo si erano affrontate per due giorni lasciando sul terreno sei morti e dieci feriti; e Pietro Valpreda, le mani in alto, al processo del ’94, a Catanzaro, per la strage di piazza Fontana.

Come si sarà capito, Raffaelli è una persona squisita ma non disponibile a qualunque costo. A Trieste gli sarebbe difficile tornarci, ma una mostra, beh, una mostra la farebbe: nella sua città natale, ma ancor più volentieri a Milano, la città adottiva. Che del resto gli ha già dedicato una bella rassegna (ma ormai 12 anni fa…) alla Limited Art Gallery sul tema “Il diario del viaggio”: immagini di 200 mila chilometri fatti entro un raggio di 20.

Altro che fotoreporter giramondo…