Il carico mitologico di Delos

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Una nuova raccolta di Giacomo Garzya, un napoletano approdato a Trieste

di Enzo Santese

 

Giacomo Garzya, napoletano di nascita, dopo essere stato spinto dalla curiosità e dalla voglia di conoscere il mondo a numerosi viaggi anche nella dimensione internazionale, si è stabilito da qualche tempo a Trieste, dove continua la sua ricerca ultradecennale nell’ambito della poesia; in questi giorni è uscita nelle edizioni D’Auria la sua quindicesima raccolta, Delos, che già nel titolo mostra l’adesione profonda dell’autore al mondo classico come caposaldo della sua formazione.

“Le mie poesie come le mie fotografie sono un giornale intimo che non è intimista. Sin da piccolo mi è stato inculcato il valore dell’universalità e quando scrivo fotografo, interrogo me, pensando agli altri.” Con queste parole il poeta segna un itinerario di attenzione per il lettore in una pagina d’avvio a una silloge del 2010 (Il viaggio della vita, D’Auria editore); è una sintesi concettuale che costituisce la nervatura primaria di una scrittura che mira alle profonde connessioni tra realtà interna ed esterna, mentre il poeta cerca dentro di sé quei punti di contatto con la realtà che giustificano un’appartenenza a pieno titolo al mondo. Le liriche sono percorse dalla frequenza di un dolore che diventa cangiante nei toni di sopportabilità e mutevole nella gradazione della sua incandescenza; qui si sviluppa una serie di annotazioni perentorie sulla dicotomia tra gioia e sofferenza, sulle ragioni che fanno prevalere di volta in volta l’una polarità emotiva sull’altra. Anche quando la metafora sembra raggiungere l’alta temperatura di una rarefazione del pensiero, la realtà si presenta nella sua essenza prospettata allo sguardo e all’animo del lettore con il tono di una colloquialità mai vernacolare, semmai ridotta alla cifra più prossima alla sensibilità degli altri, che l’autore si immagina lo ascoltino per un confronto ideale sulle valenze dell’“esserci” in una dimensione fisica che seduce con la sua avvincente bellezza e abbatte con la sua spietata discrezionalità. Il sentimento percorre nella vasta gamma dei suoi timbri tutta la riflessione di Garzya che è intellettuale legato alle sue radici, ma quel tanto che gli consente di seguire la curiosità a conoscere le più diverse particolarità naturali, artistiche e antropologiche. Nella poesia c’è l’uomo nella sua interezza, l’individuo che guarda a sé e, nel contempo, è atomo di un universo fatto di mille diversità nelle cose, nelle persone, nei loro modi di intendere l’esistente.

Delos qualifica questa silloge ed è titolo emblematico che racchiude nella brevità del nome la ricchezza di suggestioni di cui è capace l’isola greca e il mondo classico che rappresenta; nella sua fisicità dà corpo all’illusione dell’isola di Atlantide (immaginaria e simbolica nel pensiero foscoliano delle Grazie), dove bellezza e armonia costituivano l’essenza di un’atmosfera continuamente generatrice di vita. Il poeta conserva nella retina la visione dei suoi marmi candidi, delle sue rovine che inducono il visitatore ad affidare alla fantasia il compito di una virtuale ricomposizione di quel paesaggio, dando ai resti di una civiltà millenaria la definita completezza delle origini. È un’avventura dello spirito che innesca una comunicazione diretta tra Garzya e il genius loci, nei confronti del quale si pone in ascolto registrando quelle energie che servono a dilatare la tensione lirica in ogni luogo e tempo in cui la necessità del bello si evochi per la corrispondenza diretta con la realtà o per il rimpianto dovuto all’“assenza”, tema portante di una frequenza emotiva portata ad attraversare in forma diretta o mediata tutta l’opera di questo autore. Il poeta, segnato dalla perdita della sua diletta figlia Fanny, sa che la giovane si è eclissata dalla possibilità di sguardi ed abbracci, ma è presenza costante in quei circuiti interiori dove le cose e le persone care saggiano il pregio dell’eternità. La perdita rende più poveri e, paradossalmente, tanto forti da sopportarne i riflessi. “Come vorremmo riabbracciare / il sorriso di una persona cara / e non vederlo solo nella filigrana / della memoria.” E il valore della vita si fa ancora più forte, anche quando è frantumato da azioni e proclami, “dove la propria vita si distrugge, / per distruggere la vita degli altri.” Ogni assenza genera un senso diffuso e inestinguibile di nostalgia, desiderio sottile in una percettibilità appena accennata, oppure prorompente per un’accresciuta sensibilità dovuta alla mancanza che può trasformarsi in nuova energia per innervare la presa d’atto di una necessità, quella di vivere pienamente anche per integrare il vuoto della sparizione con il pieno della poesia; questa non può essere medicamento di una lacerazione forte ma combustibile per fare ancora molta strada nella geografia complessa dell’esistente, dove il futuro si struttura anche nelle pacificate tensioni del presente.

Il poeta affida all’opera il compito di esprimere specularmente i pensieri, gli stati d’animo, la trepidazione per una realtà che in troppe occasioni divarica dalle leggi della bellezza, facendo prevalere la logica della violenza che macchia la storia di efferata tensione al brutto. Ne è paradigma lampante l’Olocausto, obbrobrio di un’animalità intollerabile perché “un tempo lontano fuoco / e sacrificio di agnelli, / disciolse nel sangue gli umori cattivi / dell’uomo”. Fortunatamente la compensazione, pur parziale, la si trova nelle meraviglie dell’ingegno, come è la Primavera di Botticelli, “fiorita” nella poesia Zefiro, “il leggero soffio da ponente / la primavera annuncia / con le sue ghirlande di fiori.” Il tono elegiaco dell’opera si amplifica con la mente proiettata in terre lontane, a Gerusalemme, sulla spianata del tempio dove la voce di Dio è inascoltata

da parte di coloro che ancora coltivano “odio antico, rabbia, contesa”.

I versi rispondono nel loro ritmo a una norma di musicalità che modula i propri registri in rapporto al soggetto ispiratore, variando anche le sfumature d’umore dentro la maggiore o minore brevità dei concetti tradotti in un’ampia antologia di soluzioni formali da una vocazione che spinge a trasmettere con immediatezza, non a “costruire” secondo mestiere. Da qui nasce una poesia pulita, scritta sull’onda di una generosità che dice parole per sottolineare la volontà dell’autore di essere nel mondo cercando una sponda per i suoi tremori e un confronto per le sue certezze.

Giacomo Garzya apre in questa sua quindicesima raccolta poetica un diario intimo, costruito sulle emozioni che in un determinato tempo e luogo hanno generato il flusso concettuale e lirico delle composizioni; li ha indicati puntualmente quasi a scandire il proprio vissuto sulla necessità di comunicare al lettore la scintilla generatrice del suo sentire consegnato a versi estranei all’orpello decorativo. La conferma sta anche nel libro precedente, L’amore come il vento (Iuppiter edizioni), in cui i testi citano il motivo della morte, esaltando comunque il valore della vita. I paesaggi, luminosamente tracciati in punta di penna, come dire in delicata strategia di evocazione, vivono su una fisicità che sfuma i propri contorni dentro un complesso di scrittura che plasma i toni secondo una variabilità che è direttamente proporzionale all’avvicendarsi delle stagioni, dei suoni, dei colori e si posano sulle evidenze materiali dei luoghi, dove Garzya – sembra dircelo con la voce sommessa e forte della sua espressione regolata secondo le pulsazioni del mondo interiore – con la forza del suo dire sottolinea che la poesia abita ovunque e che al poeta è dato intercettare le sue vibrazioni più segrete. Come fa lui, con la semplicità di un racconto che parte dal dato autobiografico ma segna confini di un territorio dove è possibile una generale condivisibilità da parte di chi legge. E a Delos l’enigma della seduzione parte proprio dalle forme evidenti della bellezza lasciata in eredità da un mondo che compensa con i suoi riflessi la oppressiva opacità del presente.

 

Enzo Santese