Il cassetto di Šostakovič

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Considerazioni critiche su un libro di Giorgio Ferrari

di Francesco Carbone

 

«Se mi taglieranno le mani, scriverò musica

lo stesso, tenendo la penna tra i denti»

(Dmitrij Šostakovič)

 

Quando Šostakovič è diventato glamour in Occidente? Per tanti, dopo la scoperta di quel valzer con cui Kubrick accompagna tante sequenze di Eyes Wide Shut. Era il 1999. In realtà, Šostakovič è sempre stato amato, anche se molto di più dai musicisti e dal pubblico che dai critici, che a volte – come i mariti traditi – sono gli ultimi a capire.

Su Šostakovič si è via via costruito un mito: quello del genio amletico – tra i «maggiori creatori di ogni tempo» (P. Rattalino, Šostakovič, Zecchini 2013) – che come Galilei scelse di non diventare un martire. Il suo amico Michail Zoščenko, scrittore satirico messo al bando in URSS negli anni ’50, ne dà un ritratto graffiante: «duro, caustico, estremamente intelligente, probabilmente forte, dispotico e per nulla gentile […]. In lui ci sono enormi contraddizioni. Una cosa cancella l’altra. È un conflitto al suo massimo grado, è quasi una catastrofe» (cit. in S. Volkov, San Pietroburgo, Mondadori 2003).

Alla lista dei libri a lui dedicati (alcuni bellissimi), si aggiunge Il naufragio di Šostakovič di Giorgio Ferrari (Neri Pozza 2022), che in realtà, in un volume di quasi 200 pagine, gli dedica le prime 8 e le ultime 47. In mezzo leggiamo le storie tragiche degli artisti e degli intellettuali nella Russia comunista. Nel suo sintetico affresco, Ferrari presenta soprattutto brevi profili biografici di buona parte delle figure più importanti: Achmatova, Blok, Bulgakov, Cvetaeva, Majakovskij, Mandel’štam, Pasternak e molti altri. Stupefacentemente prolifica fu la cultura russa della prima metà del Novecento: la più tragica e la più ricca.

Quale fu per Ferrari «il naufragio di Šostakovič»? Accadde il 26 gennaio del 1936, quando Stalin assistette a una replica di Lady Macbeth nel distretto di Mcensk: non rimase neppure fino alla fine. Il 29 gennaio (ma Ferrari scrive il 28), sulla terza pagina della Pravda, venne pubblicato “Caos anziché musica” (c’è chi pensa scritto dallo stesso Stalin): la più famigerata stroncatura di un’opera d’arte del XX secolo. Lady Macbeth sparì dai programmi di tutti i teatri sovietici come il volto di Trotskij dalle foto della rivoluzione. Quella stroncatura, come si voleva, ebbe un’eco enorme: si colpiva uno, il migliore, per educarne cento.

Scrive Ferrari: «da quel giorno fatale, anche dopo la destalinizzazione, Šostakovič divenne ligio alle direttive del regime come l’ultimo dei burocrati di Gogol’. Il bimbo impertinente, il funambolico provocatore che si nascondeva dietro le sue note irridenti era sparito nel gorgo di quel terrore per non resuscitare mai più». Davvero?

In San Pietroburgo (Mondadori 1999), Volkov ci racconta che Šostakovič fu «braccato ma non piegato» dal regime, e che dopo l’abiura di Stalin «l’impulso creativo non lo abbandonò, al contrario si fece più intenso». È quanto, a parte Ferrari, riconoscono tutti.

Il giudizio estetico (come quello morale) non è per fortuna l’esito di una scienza esatta. Si può sostenere che Mozart compose troppo e che morì troppo tardi – Glenn Gould l’ha fatto –; si può quindi anche affermare che quanto compose Šostakovič dal 1936 a quando morì nel 1975 non sia stata grande musica: ma non, come a differenza di Gould fa Ferrari, senza almeno tentare un’analisi.

Ferrari ha purtroppo una tesi da dimostrare: nessun artista può essere grande nel momento in cui si piega a una dittatura. Leggiamo così che Bulgakov, Pasternak e Šostakovič poterono sopravvivere allo stalinismo solo a un prezzo altissimo: «il silenzio, l’umiliazione, la rinuncia alla libertà creativa. Una forma di morte anche questa, alla fine».

Troppa grazia e troppa fretta. Torniamo ai fondamentali: il metodo storiografico moderno è tutto in un mirabile Ricordo di Guicciardini (n. 6 della II serie). Inizia così: «È grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente, e per dire così, per regola; perché quasi tutte hanno distinzione ed eccezione per la varietà delle circunstanzie».

Restiamo allora alle storie individuali: quello che Ferrari chiama «il silenzio», fu il tempo in cui Bulgakov scrisse Il maestro e Margherita, Pasternak Il dottor Zivago, Ėjzenštejn diresse l’Alexander Nevskij e Ivan il Terribile.

Ferrari, come Minosse, giudica e manda dividendo le persone in eroi, sopravvissuti, martiri… un’altra generalizzazione. Ci sfugge perché Michail Bulgakov rientri nel girone degli acquiescenti, mentre Maksin Go’rkij sia in quello dei «primi eroi»: proprio Go’rkij, che certo protesse e cercò di salvare molti artisti, ma che fu anche fino alla fine lo scrittore di Stalin. Ancora più perplessi lascia la scelta di considerare un’eroina la seconda moglie di Stalin, Nadežda Allilueva: eroica perché – dopo un banchetto in cui Stalin la umiliò – si suicidò.

Tornando a Šostakovič: quando Lady Macbeth fu censurata, l’autore aveva 29 anni e quella era la sua opera n. 29. Morì, nel 1975: il suo catalogo era arrivato al n. 147. Per limitarci a meno dell’essenziale: dal 1936, compose sette concerti, i quindici quartetti d’archi, il Quintetto per pianoforte, il Trio n. 2, undici sinfonie… Tutta musica mai come adesso in repertorio: tutti classici del Novecento.

Per imbarazzarci un po’, va ricordato che alcune di queste opere ebbero il Premio Stalin. Šostakovič ne vinse cinque. Se di prima categoria, il premio era di 100.000 rubli: Stalin ne guadagnava 14.400 all’anno. Il Trio n. 2, la Sinfonia n. 13 e il Quintetto per pianoforte sono capolavori a cui sarebbe molto doloroso rinunciare.

Sergij Prokofiev di Premi Stalin ne vinse sei. Anche con opere tutt’altro che popolari, come nel 1947 con la Sonata per violino solo. Ferrari non dedica un profilo a Prokofiev, e questo è interessante: Prokofiev nel 1932 aveva scelto non di fuggire ma di tornare in Unione Sovietica, e in quella Russia scrisse Romeo e Giulietta, Pierino e il lupo, Cenerentola, Guerra e pace, Aleksandr Nevskij, le ultime tre sinfonie, le Sonate per pianoforte n. 7 e 8, ecc. Continuò a comporre anche dopo che sua moglie nel 1948 fu condannata a vent’anni di gulag. In che girone precipitarlo?

All’opposto di Ferrari Isaiah Berlin, che conosciamo come uno dei filosofi eminenti del pensiero liberale del XX secolo, ha scritto che «di certo, nella Storia, sotto i dispotismi l’arte è prosperata. Può essere un pregiudizio morale falso e particolarmente irrealistico […] che in condizioni di prigionia non possa sbocciare nessuna forma di genio intellettuale o artistico» (I. Berlin, Le arti in Russia sotto Stalin, Adelphi 2018). Si dovrebbe partire da questo.

E certo, quelli di Prokofiev e Šostakovič, scrive sempre Berlin, sono «casi complicati». Complicati in un tempo in cui tutti lo erano. Si poteva – per esempio – essere comunisti, e perfino stalinisti, vivendo nel terrore assoluto nei confronti del piccolo padre: il dittatore a cui Ferrari attribuisce una «morte prematura» (Stalin morì nel 1953, a 74 anni).

A parte i lapsus, occorrerebbe qualche sottigliezza – la «discrezione» di Guicciardini – che Ferrari evita di praticare. Volkov racconta che in quella Russia era inevitabile per ogni artista ricorrere a due registri simultaneamente: uno pubblico, per la miope ricezione dei censori, e un secondo, che chiama «esoterico», «molto più leggibile per un russo che in Occidente» (S. Volkov, San Pietroburgo, op. cit.).

Almeno un esempio: nel 1937, l’anno dopo la stroncatura di Lady Macbeth, la celeberrima Quinta Sinfonia venne letta dal regime come la «risposta pratica di un compositore a una giusta critica», la prova che Šostakovič si era piegato ai dettami che imponevano una musica ottimistica e orecchiabile, nata dal canto e della tradizione popolare. Ma, alla fine della prima esecuzione, mentre il pubblico in piedi applaudiva per più di mezz’ora perché aveva capito cosa aveva ascoltato (cfr. R. Polonsky, La lanterna magica di Molotov, Adelphi 2014 e Orlando Figes, La danza di Natasha, Einaudi 2008), il direttore Mravinskij teneva alta la partitura sopra la testa come una bandiera: per tutti fu «un gesto di sfida, di un disperato atto di coraggio», che «entrò nella storia della cultura pietroburghese» (S. Vortov, op. cit.).

Questo non accadeva a caso: il pubblico russo degli anni ’30 era musicalmente colto, grazie – per quanto possa sorprendere – a «un sistema scolastico musicale straordinario, costruito all’inizio degli anni Venti» (L. Ciammaruga, Soviet piano, Zecchini 2018). Lo stesso scrisse, nel 1946, Berlin dei lettori: la scuola sovietica aveva creato «un pubblico la cui ricettività dovrebbe far invidia agli scrittori e ai drammaturghi occidentali» (op. cit.).

Quando Prokofiev ascoltò la Quinta, scrisse a Šostakovič: «è diventato per me molto chiaro che “loro” non la valutano in ragione delle qualità per le quali dovrebbe essere lodata» (cit. in P. Rattalino, Prokofiev, Zecchini 2003). Loro sono ovviamente i burocrati del regime.

Nel bellissimo La danza di Natasha di Orlando Figes, c’è lo stesso avvertimento: in quegli anni impossibili in cui si poteva morire per una poesia, si scriveva – come Anna Achmatova il Requiem – «per il cassetto», senza neppure poter immaginare il momento della pubblicazione. Fino alla morte il cassetto di Šostakovič si riempì di capolavori.

Elizabeth Wilson, la sua più importante biografa, ci racconta che «Šostakovič divise consapevolmente» le sue composizioni in tre categorie: quelle segrete, le ufficiali e le colonne sonore per il cinema (in D. Šostakovič, Trascrivere la vita intera. Lettere 1923-1975, a cura di E. Wilson, il Saggiatore 2006).

Tutt’altro che arreso, Šostakovič compose fino alla fine con una dedizione e con esiti assoluti: «è inimmaginabile quanto Šostakovič abbia preteso e ottenuto in questi anni dal suo corpo malato» (F. Pulcini, Šostakovič, EDT/Musica 1988). Ma Ferrari conclude il suo Naufragio raccontandoci «un fantoccio a un soffio dall’alcolismo cronico». Quel fantoccio morì poco dopo aver concluso la Sonata per viola, l’ultimo capolavoro (versione consigliata: O Kogan e S. Richter): Aleksandr Sokurov scelse d’intitolare Sonata per viola il suo documentario – stupendo – su Šostakovič, visibile anche su YouTube.

La ricostruzione di Ferrari, infine, è basata su una convinzione più generale e da non poco tempo in voga: che tra stalinismo e nazismo non sia esistita alcuna differenza essenziale. Leggiamo così della «innegabile somiglianza fra i due sistemi totalitari […] a cominciare dalla vicendevole negazione del valore della vita umana»; e del regime di Hitler «assolutamente simile a quello sovietico». Lascia perplessi che il solo criterio che Ferrari ci offra per definire uno stato totalitario sia quello della «negazione del valore della vita umana»: con tutte le dovute differenze, chi si salverebbe? Una tesi analoga la si legge in Sinfonia di Leningrado di Brian Moynahan (il Saggiatore, 2017), ma qui l’autore neppure si sogna di parlare di Šostakovič – siamo nel 1941 – come dell’ultimo stravolto impiegato gogoliano. Sinfonia di Leningrado è un ottimo saggio, informatissimo, e un grande affresco di quel tempo terribile, anche se afferma a sua volta che stalinismo e nazismo furono i «due grandi mostri gemelli del secolo».

Su questo ci permettiamo di far presente un paio di differenze semplici: sotto Stalin, per un russo, tanto più se iscritto al partito comunista, la vita era incomparabilmente peggiore che per un nazista ai tempi del Terzo Reich: un nazista non rischiava nulla. Allo stesso tempo, se si poteva essere comunista senza essere stalinista, essere nazista odiando Hitler era, ed è, impossibile. Sui totalitarismi, come si sa, la discussione storica e teorica, cominciando almeno da Hannah Arendt, è amplissima.

 

 

Giorgio Ferrari

Il naufragio di Šostakovič

Arte e cultura sovietica

negli anni del terrore staliniano

Neri Pozza, 2022

  1. 208, euro 19,00