Sociologi in trincea

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La grande sociologia di fronte alla Grande Guerra

Gli stessi sociologi furono colti di sorpresa, come quasi tutti del resto, dalla deflagrazione europea

di Fulvio Salimbeni

 

L’occasione del centenario della Grande Guerra ha sollecitato gli studiosi ad affrontare un così tragico evento da nuove angolature storiografiche e prospettive metodologiche, cercando, in particolare, di dare la parola a coloro che vissero in prima persona quel decisivo tornante del XX secolo, donde la pubblicazione di memorie, diari, lettere dei combattenti, ma altresì indagini sul modo in cui quell’ecatombe fu vissuta, percepita, rappresentata da artisti e scrittori. Particolare attenzione è stata riservata, in tale ottica, al versante letterario, come attestano, soltanto per fare alcuni esempi recenti, l’antologia, curata da Maria Teresa Caprile e Francesco De Nicola, Gli scrittori italiani e la Grande Guerra (Ghenomena, Formia 2014), e gli atti del convegno padovano Gli scrittori e la Grande Guerra, a cura di Antonio Daniele (Accademia Galileiana, Padova 2015). Da questo scenario, nel quale, ovviamente, molto s’è parlato pure delle interpretazioni storiografiche di questa fondamentale cesura del Novecento, era, invece, assente qualsiasi riflessione sul ruolo allora svolto dai sociologi, forse perché si trattava di cultori d’una disciplina accademicamente recente, ancora d’incerta definizione, tra economia, diritto e filosofia politica. Ciò, del resto, è evidente nel volume, edito da poco da Marsilio (Venezia 2015) e curato da Ilaria Biagioli e Marco Severini, Visioni della Grande Guerra, in cui sono presi in considerazione gli storici, gli artisti, gli intellettuali, filosofi pacifisti come Bertrand Russell, il cinema, i giornalisti, i memoriali, le donne e i fanti, ma nulla si dice della sociologia.

A colmare tale lacuna è apparso La grande sociologia di fronte alla Grande Guerra, a cura di Costantino Cipolla e Alberto Ardissone (Angeli, Milano 2015, pp. 400, € 42,00), che, dopo un’introduzione generale dei curatori, propone dodici capitoli tra biografici e relativi a correnti di pensiero e una prospettiva di sintesi, dovuta a Maria Luisa Maniscalco, già autrice, nel 2013, di un’opera in merito di carattere più generale, Europa, nazionalismi, guerra. Sociologie a confronto tra Otto e Novecento (Armando, Roma), oltre a un Addendum di Barbara Baccarini sugli “Eventi salienti prima e dopo la Grande Guerra: una cronaca sociale (1913-1920)”, e all’indice dei nomi. Il Cipolla, uno dei nostri maggiori sociologi e studiosi della storia della disciplina e dei suoi principali cultori, come Achille Ardigò, ma anche autore di opere sulla storia della Croce Rossa italiana dalle origini al 1914 (Angeli, Milano 2013), sull’idea di tolleranza e su sacerdoti e cattolici impegnati nelle battaglie risorgimentali, come don Tazzoli, con questo contributo a più voci, tutte di specialisti, offre sia un prezioso apporto alla conoscenza del dibattito intellettuale sul “suicidio d’Europa” mentre era in corso, sia documentati profili biografici degli studiosi presi in esame, che costituiscono l’élite di questa nuova scienza sociale, nel 1914-18 ancora giovane, di cui nelle pagine introduttive inquadra con lucidità e rigore critico gli snodi cruciali al riguardo, esaminandone i primi passi di fronte a quel conflitto mondiale, la variabile territoriale-nazionale quale chiave esegetica, le ragioni dello scontro per i maggiori sociologi, i fattori socio-politici ed economici quali cause della catastrofe, la natura complessa delle ragioni della tragedia. Poi, dopo il suo contributo d’apertura, dedicato a Max Weber – sul quale, tra l’altro, Angeli ha appena dato alle stampe il volume di Gianfranco Poggi Incontro con Max Weber -, Raimondo Strassoldo illustra la prospettiva austro-ungarica all’interno d’una riflessione più generale su sociologia e guerra, l’Ardissone il pensiero pacifista dell’americano Thorstein Veblen, Fabrizio Battistelli l’analisi marxista, Nico Bortoletto il pensiero di Emile Durkheim, mentre Alessandro Fabbri documenta l’interpretazione della Rivista Italiana di Sociologia. Se a Maria Caterina Federici è, invece, spettato il compito di spiegare perché la Grande Guerra fu percepita come l’apocalisse della modernità, ciò in particolare da Pareto e Simmel, Raffaele Federici per parte sua ha preso in esame la posizione di Robert Michels di fronte a essa e Alessandra Sannella quella di Leonard Trelawny Hobhouse, spettando a Rosemary Serra il compito di analizzare le reazioni americane al conflitto, con particolare attenzione alla posizione accademica di George Herbert Mead, quest’articolata e complessa indagine venendo conclusa dagli interventi di Donatella Simon su Vilfredo Pareto e la sua visione della guerra come laboratorio e di Tatiana Yugay e Gianmarco Cifaldi sulla prospettiva interpretativa russa.

La persuasiva spiegazione dei curatori, ma anche di più d’uno degli autori, della scarsa considerazione allora della sociologia nella spiegazione di quell’epocale tragedia europea, è che nel clima irrazionalista di primo Novecento, che aveva messo in drastica discussione la stagione della cultura positivista, dominante negli ultimi decenni del secolo precedente, una disciplina come quella sociologica, nata e affermatasi in tale periodo, e per opera d’uno dei maestri del positivismo europeo, Auguste Comte, non poteva godere di particolari simpatie né attenzioni. Va, inoltre, tenuto presente che gli stessi sociologi furono colti di sorpresa, come quasi tutti del resto, dalla deflagrazione europea, che andava contro la loro persuasione, in quel periodo largamente diffusa, che il progresso scientifico e tecnico con tutte le sue applicazioni sociali avrebbe posto termine all’età delle guerre, avviando l’umanità a una duratura era di pace, benessere e cooperazione internazionale, donde la difficoltà d’interpretare un simile inusitato evento, che si presentava in forme e proporzioni sino a quel momento inimmaginabili, ma che poteva anche essere considerato, sulla scia del pensiero di Herbert Spencer, come una lotta biologica per l’affermazione del più forte nell’agone mondiale, e, avendo presente La psicologia delle folle di Gustav Le Bon, del 1895, quale affermazione e trionfo della società di massa, quasi tutti, se non tutti, riconoscendo il ruolo decisivo e determinante delle nuove tecnologie distruttive, della pianificazione industriale e del Genio militare nella gestione del conflitto, che aveva completamente perso i caratteri romantici ancora ottocenteschi. Gli stessi sociologi, inoltre, non erano, nietzscheanamente, al di sopra e al di là del Bene e del Male, ma condividevano le coeve passioni politiche e nazionali, sicché perfino Max Weber, che nell’immediato dopoguerra sarebbe stato uno degli artefici della Repubblica di Weimar, fin dall’inizio del conflitto si schierò anima e corpo a favore della causa tedesca, vedendo nella propria nazione la portatrice dei valori universali della Kultur di contro a quelli capitalistici e materialistici della Civilisation anglo-francese, banditrice d’una discutibile democrazia. Un simile atteggiamento, d’altronde, era stato proprio altresì d’un altro emblematico esponente della civiltà tedesca, Thomas Mann, che nelle Considerazioni di un impolitico aveva espresso posizioni affini, anche se in seguito rinnegate. Quella che nel 1927 Julien Benda a ragione avrebbe definito La trahison des clercs vide in prima fila anche intellettuali dell’Intesa, che, abdicando alla loro funzione critica, divennero appassionati propagandisti della causa dei rispettivi paesi (e dell’importanza della propaganda come ulteriore arma di distruzione delle coscienze individuali e collettive non si manca di ragionare in più punti), veicolando e sostenendo – come, d’altronde, si faceva pure dall’altra parte del fronte – l’idea della crociata del Bene contro il Male, della Civiltà contro la Barbarie, ben pochi seguendo l’esempio di Romain Rolland, che, trasferitosi in Svizzera, s’era impegnato a fondo per la promozione della pace, e di Bertrand Russell, finito in carcere per il proprio pacifismo radicale; un illustre studioso come Durkheim, maestro indiscusso della ricerca sociologica in Francia – sul quale ora si può vedere la monografia, fresca di stampa, di Anthony Giddens, Durkheim, edita da Angeli -, sospettato di scarso sentimento nazionale dato il cognome germanico e l’ascendenza ebraica (l’affare Dreyfus s’era concluso da poco, lasciando ferite profonde nella società francese), s’impegnò ancor più a favore della causa nazionale per dissipare ogni sospetto sulla propria collocazione ideologica. In Russia lo scontro con gli Imperi Centrali fu interpretato addirittura come una missione religiosa, che avrebbe dovuto riportare la decadente Europa ai suoi più autentici valori cristiani; non si scordi, del resto, che tra i motivi propagandistici più diffusi in entrambi i fronti c’era anche quello religioso, la guerra essendo concepita rispettivamente come scontro tra cattolicesimo e protestantesimo o tra cristianesimo germanico e ortodossia slava e viceversa, laddove Lenin e i bolscevichi in essa videro l’occasione per abbattere l’impero zarista e promuovere la rivoluzione. I teorici marxisti occidentali, per parte loro, furono messi in crisi dal trionfo del nazionalismo nei rispettivi partiti socialisti e socialdemocratici, tutti unanimi (con l’eccezione di quello italiano, che aveva adottato la formula “Né aderire né sabotare”), nel votare i crediti di guerra e nel sostenere i rispettivi governi in vere e proprie “unioni sacre”, come furono definite, uniche eccezioni essendo quelle di Rosa Luxemburg e di Karl Liebknecht.

Tanto più apprezzabili, pertanto, le posizioni pacifiste e antimilitariste di studiosi quali Thorstein Veblen e George Herbert Mead, che negli USA prima e dopo l’entrata in guerra dell’aprile 1917 si batterono per la causa della pace, tutt’al più giustificando l’intervento in Europa alla luce dei famosi quattordici punti del discorso del gennaio 1918 del presidente Wilson, che propugnava l’autodeterminazione per tutti i popoli e la nascita d’una Società delle Nazioni quale organo sovrano a livello mondiale, che avrebbe dovuto prevenire qualsiasi conflitto. In Inghilterra, invece, Hobhouse, già dai tempi della guerra anglo-boera contestatore dell’imperialismo britannico, cercò di promuovere l’idea d’una federazione europea come rimedio ai rischi di nuovi conflitti, criticando l’oltranzismo del proprio governo nell’imposizione di clausole di pace umilianti alla Germania vinta, vicino, in questo, alle considerazioni di Keynes ne Le conseguenze economiche della pace, del 1919.

Non meno critico, d’altronde, era stato l’atteggiamento di Vilfredo Pareto, che dall’autoesilio elvetico poteva giudicare con maggior distacco il dramma che s’andava svolgendo sotto i propri occhi, analizzando il ruolo dei sentimenti, delle emozioni, delle passioni, e l’impatto della guerra sulle trasformazioni sociali, il declino dell’aristocrazia e la crescente affermazione della borghesia, mentre Michels, prendendo in esame i risvolti demografici del conflitto e la selezione naturale che aveva provocato, non aveva neppure mancato di rilevare l’impatto sulla guerra della nuove tecnologie, tanto da poter essere accostato al Kraus de Gli ultimi giorni dell’umanità e al Benjamin degli scritti degli anni immediatamente successivi alla fine dell’ecatombe europea. A questo proposito uno dei pregi del volume è anche quello d’aver svolto il discorso in termini pluridisciplinari, tenendo conto tanto, come ovvio, della ricerca storiografica quanto delle riflessioni di filosofi e di scrittori, oltre a quelli menzionati, come Stefan Zweig, autore di quel Mondo di ieri. Ricordi di un europeo, più volte qui citato, e della raccolta di saggi La patria comune del cuore, che è l’Europa, ispirata alla tragedia appena conclusa, ragion per cui La grande sociologia di fronte alla Grande Guerra si propone come un contributo imprescindibile alla conoscenza non solo d’un importante momento della storia della disciplina ma delle stesse molteplici componenti e dei diversi aspetti dell’“inutile strage”.