Il cielo in un cartone

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In una nuova raccolta poetica Tristano Tamaro invita a un viaggio tra realtà e sogno

di Enzo Santese

 

 

Dedicandosi da un po’di tempo quasi esclusivamente alla poesia, Tristano Tamaro esprime in una foga torrenziale il suo mondo interiore, dove si bilanciano in maniera precisa certezze e timori, slanci vitalistici e ripiegamenti pensosi, sguardo ironico e serietà analitica. È uscito da pochi giorni nelle edizioni Battello il suo libro Cielo in un cartone con poco più di una sessantina di liriche, scritte sul filo di una sensibilità profonda per le problematiche connesse tra il sé e il mondo circostante.

Nello stile visionario che gli è consueto Tristano Tamaro apre orizzonti di luce verso lande remote che sono, peraltro, l’effetto speculare delle sue tensioni a misurarsi con il motore segreto del cosmo, dove risuona e viene percepito per intero il nesso tra azione e sentimento, forza della scrittura ed energia della vita, che dentro i propri meccanismi macina inesorabilmente emozioni, pensieri e parole. Fin dal titolo, Cielo in un cartone, desunto dalla lirica “ore 4.42”, l’autore sospinge il lettore in un’orbita di fantasia costruita sulla metafora che un banale involucro contemporaneo, utile per un imballaggio di cose destinate al trasporto, diventa scatola magica in cui trova spazio addirittura il cielo e rimanda allusivamente alla capacità di provare vere gratificazioni in piccoli fatti di ogni giorno. Tamaro va in cerca della nota nascosta / nel labirinto della memoria, che è possibile intercettare ponendosi in ascolto delle vibrazioni più segrete del mondo interiore; qui nella parte più riposta ci sono le energie del vissuto (esperienze, memorie, stati d’animo ricorrenti) alle quali attingere nei momenti di più lacerante solitudine e di più intensa partecipazione alla storia privata. Il poeta affida alla parola una valenza vivificante, la giudica il rimedio più efficace contro le sedimentazioni del tempo, contro le inerzie di una vita condotta al traino degli avvenimenti decisi da altri.

Le prime raccolte, Duevolteti del 1995, Note di viaggio del 2012, Venne da un buio di stelle del 2015 ci propongono un autore impegnato a cercare sponde d’ascolto in lettori ai quali esprime la cifra di se stesso uomo e padre, attraverso il racconto che tocca i fatti esterni lasciando solo per allusione le conseguenze sull’anima.

Con le Periferie del cuore, 2016, Oggi è un buon giorno, del 2017, Siamo parole (2018) il verso scaturisce da un’indagine serrata sul rapporto fra la vita vissuta e quella desiderata con un bilanciamento perfetto di realtà e sogno, dentro un periodare scandito da un ritmo ispirato a quella velocità che Tamaro pratica ancora sulle piste d’atletica. L’importante per lui è la consapevolezza che gli anni da vivere “volano alti” e “respirano d’azzurro”. In questa raccolta l’autore triestino sembra avere un punto di riferimento – per lui “tangibile” – in un aldilà come sponda essenziale per gli affondi di una visionarietà che è anche motore utile ad alleggerire i gravi effetti di un quotidiano dominato da un’assenza. Il figlio scomparso in giovane età è il paradigma di una perdita tramutata, paradossalmente, in presenza sollecitante dentro il ritmo di una poesia che sgorga da una fonte – il poeta stesso – capace di autoalimentarsi con il prelievo memoriale, una sorta di lente d’ingrandimento dei dettagli fisionomici dei sentimenti, costantemente corroborati da un colloquio con se stesso o con un “tu” generico denso di stimoli intellettuali. E i testi, perfettamente in linea con l’esigenza di equilibrio armonico, presentano al proprio interno un repertorio ricco di varianti espressive, convergenti peraltro in una misura compositiva che è la prima cifra della poesia e delle sue cadenze ritmiche. Le questioni esistenziali sfumano verso le problematiche più alte della dicotomia tra vita e morte, tra le azioni del vissuto e le dinamiche del destino e i versi sono l’alveo di scorrimento per quelle sensazioni così forti da sconfinare oltre la realtà fisica e viaggiare nel territorio più vicino al dato visionario.

Nel tragitto esistenziale la poesia è per Tamaro un approdo rassicurante che realizza peraltro i suoi benefici effetti nel tempo necessario a pensare a sempre ulteriori prove, altri tasselli dove il colloquio con la realtà dei sentimenti si fa territorio di confronto con quel mondo delle idee private in cui di volta in volta va a prelevare uno spunto da tradurre in concretezza quotidiana. Dalla prima silloge a oggi si segnala un climax ascendente nel segno di una progressiva decantazione dell’esperienza di vita e la messa a fuoco di un mondo che è sogno, volo fantastico verso un infinito (per sua natura indeterminato), ma è prima di tutto carne viva di una realtà capace di mettere a dura prova il soggetto che pensa e subisce i colpi di un destino apparentemente avverso.

L’autore afferma: “Certe parole / hanno il mare dentro / e ti portano via”, come dire che nel flusso continuo dei significati il soggetto ha la possibilità di andare oltre l’ambito semantico letterale e abbandonarsi alla forza della corrente verso rive impreviste e, proprio perciò, cariche di fascino. Ma nelle poesie di Tristano Tamaro è dato anche cogliere l’equilibrio sostanziale fra il fondo concettuale dominato dal vuoto e dalla perdita e l’immaginario fitto di presenze che animano un uditorio allusivo, con cui il poeta dialoga partendo – come si diceva – proprio dal “tu” generico. Con questo libro l’autore triestino ripristina il dialogo dell’io con la storia e la sua personale è fatta di perdite e di assenza. I ritmi percussivi delle vicende private e la voce del dolore si acquietano in figure dove l’armonia dell’immaginare e del dire è in qualche modo antidoto alle ferite fisiche e ai tormenti psicologici.

Nel continuo alternarsi di evidenze di realtà e grumi di astrazione, nell’accostamento di contrari che germina poi in visioni stratificate dentro parvenze multiple c’è un ingegnoso porsi dell’autore di fronte all’esistente con la disposizione continua al sorriso ironico che sfocia talora in esiti di ricca aggettivazione.

Il dialetto poi è l’alveo dove scorre la linfa ancor più genuina di una volontà di dire cose soprattutto a se stesso in una confidenza profonda dei propri moti interiori, fatti vibrare a contatto con i ricordi capaci di recuperare un passato irripetibile, eppur custodito nello scrigno di una memoria che si apre illuminando dettagli sotto la lente d’ingrandimento dell’affetto. E la scrittura si caratterizza per una trama di analogie, di amplificazioni di senso, di accensioni di ritmo nel ritratto di slanci emotivi, di lievitazioni verso l’infinito seguite da immediati “atterraggi” nella concretezza quotidiana, del parlare agli altri per confidare a se stesso; in ciò si innesta l’equilibrio tra quanto è perduto e quanto ancora si possiede, lo sguardo autocritico che subito dopo si innerva di rinnovati entusiasmi nel proiettare desideri dentro la prospettiva immediatamente futura, come quando afferma “So che per trovare me stesso / mi devo spingere / dove nessuno può aiutarmi, / solo perdendomi / saprò quale colore / vesta la mia anima.”

Gli anni trascorrono portando con sé la traccia profonda di dolori e disillusioni ma è perfettamente bilanciato dall’abitudine a guardare il cielo come un ambito dove il pensiero libero trova una splendida compensazione ai pesi esistenziali; d’altro canto Tamaro ricorda che “Il tempo è solo una nota / nascosta dentro una canzone”.