Werner Bischof tra cronaca e arte

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Il fotografo svizzero in una bella mostra alla Casa dei Tre Oci a Venezia

di Michele De Luca

 

“Solo il lavoro fatto in profondità, con un impegno e un coinvolgimento totali, può davvero aver valore.” Sono parole di Werner Bischof (Zurigo 1916 – Trujillo 1954), uno dei più importanti fotografi del Novecento, tra i fondatori della gloriosa Agenzia Magnum, a cui, dal 22 settembre 2017 al 7 gennaio 2018, la civettuola Casa dei Tre Oci di Venezia dedica la grande antologica “Werner Bischof . 1916-1954” (catalogo edito dalla prestigiosa rivista americana Aperture); la mostra, curata dal figlio Marco Bischof, organizzata da Fondazione di Venezia e Civita Tre Venezie, in collaborazione con Magnum Photos e con la Werner Bischof Estate, presenta una poderosa selezione di duecentocinquanta immagini provenienti dallo sterminato archivio del fotografo che ci fanno ripercorrere le fasi più significative di una intensa, lunga e appassionata carriera, fatta di reportage realizzati nei luoghi più remoti del pianeta, dall’India al Giappone, dalla Corea all’Indocina, da Panama al Cile e al Perù (con una ventina di foto inedite riguardante il nostro Paese), e purtroppo stroncata nel 1954 da un tragico incidente stradale nelle Ande peruviane, quando il fotografo aveva appena compiuto trentotto anni e ci aveva appena “regalato” la sua immagine più nota e famosa, quella di un ragazzo che suona il flauto camminando nei pressi di Cuzco.

“Pochi altri fotografi hanno vissuto con la stessa intensità il dilemma della fotografia moderna, e creato, grazie a questa tensione un’opera dal significato esemplare. Bischof non ebbe a disposizione nemmeno vent’anni; pure poté realizzare un’opera di tale qualità e portata grazie alla passione con la quale si dedicò al lavoro, un lavoro pieno di dubbi, ma furono proprio questi dubbi che divennero fecondi”. Scriveva così di Bischof – piace ricordarlo – Hugo Loetscher introducendo, nel 1990, alla monografia edita da Federeico Motta nella raffinata collana di fotografia diretta da Giovanni Chiaramonte. Dubbi che lo hanno sempre accompagnato tra aspirazioni “artistiche”, inculcategli dalla Scuola di Arti e Mestieri della sua città natale, dove si era dedicato alla fotografia come “arte applicata”, e la qualifica e pratica professionale di reporter, che non ha mai gradito, anche se è grazie al frutto di questo lavoro che è diventato famoso. In entrambi i settori fu assai abile, dedicandovisi con estrema curiosità, continua sperimentazione e grande naturalezza. Con una tensione che si giocava – dice ancora Loetscher – “tra lo studio e il teatro degli avvenimenti”.

Di questi dubbi, vissuti da Bischof in maniera anche angosciosa e tormentata, è lui stesso a darcene una diretta testimonianza quando, dopo aver realizzato nel 1952, su commissione, un reportage in Indocina, ebbe a scrivere: “Ne ho avuto abbastanza: questa caccia alla storia è diventata difficile da reggere – non fisicamente, ma mentalmente. Ormai il lavoro qui non mi dà più la gioia della scoperta; qui quello che conta più di qualunque cosa è il valore materiale, il fare soldi, fabbricare storie per rendere le cose interessanti. Detesto questo genere di commercio di sensazioni … è stato come prostituirsi, ma ora basta. Dentro di me io sono ancora – e sarò sempre – un artista”. In concreto, però, Bischof, come ha scritto Robert Pfrunder, direttore della Fondazione per la fotografia di Winterthur, “ha saputo abbinare l’aspetto documentaristico a quello estetico”.

Bischof si era fatto un nome già da giovanissimo nel campo della moda e della pubblicità con le sue brillanti composizioni di luci ed ombre. All’età di sedici anni iniziò a frequentare la Scuola di Arti Applicate di Zurigo dove entrò in contatto con il fotografo Hans Finsler, noto artista della Bauhaus legato alla corrente della Nuova Oggettività; originariamente Bischof voleva diventare pittore, ma si rivolse ben presto alla fotografia influenzato da Làszlo Moholy-Nagy e Man Ray, ponendosi ad analizzare diligentemente gli effetti della luce e dell’ombra sulla natura e sulla forma umana. La terribile esperienza della guerra e la visione angosciante di un’Europa in macerie alla fine del conflitto lo spinsero però ad abbandonare la fotografia patinata per dedicarsi alla documentazione di un’umanità annientata e sofferente. “I miei occhi si aprono; imparo a vedere”: con questa frase manifestava, alla fine degli anni ’40, il suo passaggio dalla fotografia di moda a quella del fotoreportage.

Un salto mentale ed emotivo dallo scintillante mondo del lusso e delle passerelle a quello crudo e desolante della guerra, delle carestie, della solitudine. Il suo impegno divenne quindi quello di mostrare senza infingimenti e falsificazioni la realtà, convinto che al fotografo spettasse il ruolo di una testimonianza motivata da profonda responsabilità sociale. Viaggiò spesso nelle zone di guerra, malgrado disprezzasse il sensazionalismo della stampa per cui lavorava; riuscì comunque a far sempre trasparire, con forte spirito di partecipazione umana, il suo amore per i suoi soggetti e per le realtà sociali che ebbe a rappresentare con i suoi scatti. A ciò fu capace di unire una sua particolare e personale sensibilità estetica, dando così un potente impulso all’arte della fotografia, sia sotto il profilo etico che qualitativo.

Nel 1949 entra a far parte dell’appena nata agenzia Magnum Photos, per la quale lavora in qualità di fotoreporter in giro per il mondo: in pochi anni visita il Giappone, Hong Kong, la Cina e la Corea. Nel 1951 arriva finalmente a riscuotere il suo primo successo internazionale con il reportage sulla carestia nella regione indiana del Bihar, per conto della rivista americana Vogue. Nonostante sia profondamente colpito dalla povertà della popolazione indiana e dalle condizioni estreme di vita in quelle regioni, riesce a mantenere intatta la sua sensibilità per la perfezione tecnica, utilizzando la luce come elemento creativo e realizzando delle immagini potenti e di grande impatto visivo. Le sue foto ricercano la profondità dei fenomeni e riescono a sensibilizzare il mondo e i suoi reportage si caratterizzano per la totale immersione nel “contesto”, sempre in equilibrio tra ricerca formale e racconto oggettivo. Nelle sue immagini entra “prepotentemente” la vita, anche quella apparentemente insignificante, che nei suoi scatti diventa ricca di segni che svelano ritmi esistenziali di antiche civiltà, con la loro altera dignità e struggente dolcezza.