Il contabile

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di Giuseppe O. Longo

 

Il rituale si ripeteva ogni quindici giorni, e durava diverse ore a partire dalle dieci di sera. Mario Predominato, contabile della ditta F.lli Mangiacavalli, verificava i registri, ne firmava e timbrava le pagine e il giorno seguente li consegnava all’Amministratore, ragionier Quintapelle, che li depositava in archivio. A far assumere Predominato per quell’incarico di grande responsabilità aveva contribuito il suo irreprensibile passato di furiere presso il 151° Reggimento di Fanteria. Il contabile era molto fiero di quel compito delicato, cui attendeva con puntualità e precisione maniacali. In primo luogo l’abbigliamento, a partire dalla visiera di celluloide verde e dalle soprammaniche di satin nero per finire con le ampie soffici pantofole che indossava estate e inverno. Era d’inverno che la verifica dei registri gli dava la massima soddisfazione: indossava una giacca da camera color verde bottiglia tutta allumacata, si accampava nella vasta cucina, dispiegava i registri sul tavolo di marmo, faceva andare la stufa a tutto vapore, chiamava suo figlio quindicenne Luciano ad assisterlo, ma che non fiatasse, per amor del cielo!, verificava che i grossi occhiali da presbite fossero lustri e che il sacchetto delle mentine fosse colmo, anche se il ragionier Predominato alle mentine preferiva certe sigarette popolari dal fumo acre, le cui spirali ben presto si diffondevano nella stanza formando una nebbiolina azzurra e fetida che faceva tossire l’innocente Luciano: ma lui, il contabile, non se dava per inteso, accendeva una sigaretta col mozzicone della precedente e aspirava il fumo dentro i polmoni con un sibilo arrangolato di mantice da fabbro. C’era sul tavolo anche un portacenere, talmente piccolo che la cenere debordava subito e si insinuava dappertutto. Peraltro il portacenere si smarriva sempre sotto i registri e si riempiva presto di cicche che Luciano, a un cenno muto del padre, andava a versare nella vampa della stufa, che gli coceva la faccia. Oltre a svuotare la ceneriera, Luciano aveva il compito arrischiato di dettare al padre certi elenchi lunghissimi di numeri, e ad ogni numero il padre sibilava un appresso carico di tutto il compiacimento che gli procurava quel piccolo passo, mentre dalla sigaretta incollata a un angolo della bocca saliva un filo di venefico fumo a tormentargli l’occhio sinistro, senza peraltro scuotere la sua imperturbabilità. Ma a volte i conti non tornavano, c’era magari una differenza di sette lire, ma non era tanto l’entità dell’errore quanto la sua luciferina presenza a irritare Predominato. E allora verifiche su verifiche e ogni volta l’errore si ripresentava passando da sette a dodici lire, a venticinque… Il contabile s’infuriava, sudava copiosamente, si strappava la visiera e insieme, dalla cuticagna, un ciuffetto di residui capelli, fissava il figlio senza vederlo, si accendeva due o tre sigarette insieme, poi per sfogarsi dava uno scapaccione a Luciano, che si metteva a piangere, il che mandava il padre su tutte le furie. La signora Predominato stava nell’altra stanza e non osava intervenire, ma il giorno dopo tornava alla carica, perché il marito non voleva usare quella piccola e graziosa calcolatrice che lei gli aveva regalato?, e lui, cocciuto come un mulo, a gridare che i conti si fanno a mano e a mente e non con le macchine e queste sue intemerate erano tanto violente che nessuno osava menzionare la calcolatrice per le due settimane successive. Bene o male, che fosse mezzanotte o le cinque del mattino, si doppiava il capo della verifica. Luciano stramazzava sopra i registri come un bue al macello, suo padre sorrideva beato sui denti guasti dal fumo e si buttava in bocca una manciata di mentine, la stufa, abbandonata a sé stessa, si spengeva, sui vetri delle finestre si riformavano i ghiaccioli che si erano sciolti durante la lotta per la verifica… e tutto procedeva verso l’appuntamento successivo, di lì a quindici giorni.