Il Corriere della Sera per Montale

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In un volumetto un’efficace ricognizione di quanto ci ha lasciato, in versi e in prosa, il grande poeta ligure, premio Nobel per la Letteratura

di Fulvio Senardi

 

Che Josif Brodskij fosse un appassionato lettore di Montale, e in particolare delle prosastiche e ironiche (o non piuttosto sarcastiche?) liriche di Satura, è solo una delle numerose curiosità che ricaviamo dalla lettura del volumetto dedicato al poeta ligure pubblicato come supplemento al Corriere della Sera. Splendido risarcimento ai numi della letteratura da parte della stampa quotidiana, che ha ormai espunto le recensioni o le comprime entro scarni trafiletti (di solito affidati a penne di scarsa competenza che se la cavano con ‘sì’ adrenalinici e ‘no’ enfatici, del tutto a prescindere, è il caso di dirlo, dai testi di cui sproloquiano). E peggio in provincia che sui grandi organi nazionali, che ritrovano invece – testimone il rinato Tuttolibri, storico supplemento della Stampa – la necessità della Cultura.

Per altro non è solo un male che la letteratura e la saggistica che la riguarda facciano un passo indietro nell’Enciclopedia dei saperi in un Paese dove fino a pochi decenni fa ogni discorso, politico, sociale, economico sembrava aver bisogno di un vettore letterario per accedere ai circuiti del dibattito. Una sorta di Arcadia, che sanciva la connaturalità di classe dirigente e Liceo classico, scuola-feticcio del ritardo italiano, con l’apprendimento della lingua straniera, fino a tempi recenti, limitato ai due primi anni, e dove discipline come psicologia, sociologia, ecc., non erano che grigie ancelle della filosofia (ultimo pensatore preso in esame: Benedetto Croce). Resta il fatto che la letteratura ha un significato identitario fortissimo, e in particolare nel nostro Paese (non è un’assurdità sostenere che l’Italia è stata sognata dai letterati, come premessa al vero e proprio progetto politico), oltre a rappresentare, sul piano individuale, un impareggiabile strumento di conoscenza di sé e del mondo. Attenti dunque a non gettare via il bambino con l’acqua sporca del bagnetto.

Ma, per venire al nostro libro (quasi 160 pagine con una concisa antologia delle opere e della critica), interessante anche la formula: una parte redazionale (con qualcuno dei soliti svarioni cui ci ha abituati una categoria professionale, i giornalisti, che condivide con tutti noi il male dell’ignoranza, ma ha in più la sciatteria di non volersi informare, quando poco costerebbe. Del resto, se il giornalista sbaglia, chi lo sanziona? Quanto coltiva una deontologia della responsabilità e della competenza come correlativo del privilegio della parola pubblica? C’è perfino la grazia presidenziale, se incorre nel reato di falso e diffamazione! E quindi: il biennio rosso è antedatato al 1918, p. 30, e poi: l’Italia in guerra “subì gravissime perdite in Francia, duemila caduti contro i trentasette francesi”, p. 33); e una sezione affidata (verrebbe da dire ovviamente, ma non è più così purtroppo) a chi se ne intende, ovvero a Massimo Natale dell’Università di Verona, che firma il “Focus”, ovvero il nucleo più originale e stimolante del volume.

Con un linguaggio semplice ma non sciatto, animato da costante tensione conoscitiva e pedagogica, alternando i caratteri tipografici per mettere in rilievo ciò che più importa notare, sul piano dei contenuti o della forma, Natale ci fa da guida nella visione del mondo e nell’officina poetica di Montale, con particolare attenzione ai nodi cruciali della lirica: “c’è sempre in Montale”, spiega, “un’istintiva nostalgia della vita perduta e tuttavia magicamente ‘sentita’ – anche se solo per un attimo – proprio grazie al potere esilissimo, eppure ‘ricco e strano’, della poesia.” (p. 45) Una predisposizione che è anche “abito di stile”, dove si evidenzia la capacità di Montale, assolutamente unico nel novero delle voci poetiche del primo Novecento, e siamo alla fase di Ossi di Seppia, “di assumere fino in fondo il ruolo che la grande lirica europea si è scelta per sé, almeno dal primo Ottocento in avanti: saper raccontare, forse come nessun’altra forma artistica, l’esperienza della perdita, la fine di ogni certezza sul senso della vita umana, in un’età – diceva Hölderlin – di privazione, in cui gli dei hanno abbandonato l’orizzonte” (p. 44). E da qui un sentimento della vita, tradotto magistralmente in “qualche storta sillaba e secca come un ramo” (Non chiederci la parola) dal grandissimo potere di fascinazione, che non si stenterebbe a definire “esistenzialista”, per come svicola dalla bolsa retorica ottimistica delle filosofie idealistiche e dello scientismo, assumendo su di sé invece i temi più inquietanti e dolorosi di una “per nulla rasserenata creaturalità” (p. 68). E nonostante ciò, a correttivo di una visione del mondo fin troppo gravata da toni cupi, il tentativo (avvertibile particolarmente ne Le occasioni del 1939) di “catturare e restituire proprio quei momenti in cui l’Io sente la vita come ’vera’, autentica. Il che può succedere solo a squarci e a ‘barlumi’, dentro un attimo improvvisamente pieno di senso, pur in una situazione qualunque” (p. 71). Come nella grande tradizione lirica occidentale, per riuscita sintesi di modelli tradizionali e intima verità esperienziale, è ancora il Femminile l’ancora di salvezza per l’Io alla deriva: ma il carattere delusivo e illusorio di ogni esperienza, una lotta contro potenze ostili annidate nella stessa natura umana (“la mia nebbia di sempre”, chiama Montale, in Non recidere forbice quel volto, la condanna dell’uomo alla dimenticanza), obbliga il poeta ad arricchire il femminile di “connotati di irraggiungibile assolutezza” (p. 80).

Quasi un moderno stilnovismo (uno stilnovista roccioso, un Cavalcanti eliotiano, ha proposto suggestivamente Paolo Febbraro) che arieggia la sacralità di antichi spartiti senza mai indulgervi, giusta la riluttanza di Montale a imboccare scorciatoie consolatorie. Non c’è via d’uscita dalla condizione umana, che inesorabilmente ripropone esperienze di separazione e di perdita: “Tu non ricordi la casa dei doganieri / sul rialzo strapiombo della scogliera: / desolata t’attende dalla sera / in cui v’entrò lo sciame dei suoi pensieri / e vi sostò irrequieto. […]”. Poesia del negativo, dunque, ma capace di celebrare una liturgia che è solo della grandissima arte: “rappresentare la morte e la distruzione, ma regalare a chi la legge un soprassalto, un quanto di vita” (p. 96, in particolare qui su Piccolo testamento, uno dei capolavori assoluti di Montale). E poesia a tratti difficile ma lontana da “ogni sospetto di ermetismo e di ‘poesia pura’: la scrittura è continuamente compromessa con il reale, al di qua di ogni sua rarefazione gerarchica”.

L’ultimo Montale (ma andiamo per salti ed esclusioni: c’è anche un Montale prosatore, c’è lo straordinario critico letterario che si incanta della narrativa di Svevo, rivendica, contro Croce, il valore della poesia di Saba, ecc., c’è il critico musicale) è il poeta che ha percorso l’intera parabola dalla “triste meraviglia” di fronte a un male di vivere che tormenta tutte le creature e perfino la foglia, condannata a “incartocciarsi”, all’insignificanza volgare della modernità, un “panorama di spoliazione” (p. 109) che guarda a una “linea dell’orizzonte” fattasi scura, per l’invadente putridume di un declino etico e civile senza nobiltà (più in Italia che altrove, per l’assenza di storici anticorpi, come insegna il Leopardi del Discorso sullo stato presente dei costumi degli italiani). Quella borghesia di cui Montale cantava, con grande dignità, le aporie morali e intellettuali (e di cui aveva sognato la palingenesi avvicinandosi al Partito d’Azione tra il 1945 e il 1947) si adatterà a intonare, di lì a qualche decennio dalla sua morte, le strofette di “menomale che Silvio c’è”. L’“ombroso Lucifero” del Piccolo testamento ha preso il volto di un clown del porta a porta, anzi, dello schermo a schermo. Caduta a piombo di una civiltà, sommersa dalle “fanfaluche” (parola montaliana) e dal fango. Di fronte a tutto ciò, pur con i suoi limiti di chiusura individualistica e l’eccesso, forse, di staffilate sarcastiche, la Satura di Montale, così profetica nel descrivere l’erosione di valori provocata dalla società consumistica (e in perfetto unisono con Pasolini che denunciava, negli stessi anni di Satura, l’ “entropia borghese” che omologa e livella), resta un ottimo farmakon per chi voglia ancora coltivare il pensiero critico nell’epoca della menzogna.