Il dramma di un militare pacifico

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Cristiano Caracci affronta con successo la sua quarta prova narrativa

di Fulvio Senardi

 

Giunto alla sua quarta prova, Cristiano Caracci si conferma uno dei migliori narratori del nord-est. Schivo di carattere quanto gentile nel tratto, professionalmente impegnato nel Foro di Udine – lunghe giornate passate tra le toghe piuttosto che in compagnia dei libri – Caracci, a conoscerlo, fa l’impressione del gentiluomo d’altri tempi. Ho nitida memoria del primo incontro, in occasione della presentazione de La luce di Ragusa, nel lontano 2005, con lo scrittore al mio fianco, felice ma quasi stupito per lo splendido libro che gli era uscito dalle mani e per la calda accoglienza che gli tributava il pubblico. Poi un lungo silenzio, interrotto dall’uscita de L’Adriatico insanguinato nel 2014.

I salotti letterari della Regione (per metafora: le pagine dei libri dei quotidiani, gli innumerevoli festival con al culmine Pordenonelegge, l’attività di promozione culturale degli assessorati comunali – peggio che mai a Trieste, che ha visto il suo ultimo vero assessore alla cultura nella persona di Roberto Damiani) non conoscono il suo nome o quasi. A plateale conferma dell’adagio che vuole nemici merito e notorietà. Fornisce ora un’ottima occasione per riparlare dell’uomo e dell’opera Il capitano della Torre di Galata, uscito nel 2018 per le raffinate edizioni di Santi Quaranta. Si noti il prezzo (Euro 13,00): complimenti all’editore che offre un prodotto di qualità al costo di un tascabile, e consiglio ai lettori, occasionali o forti che siano: rinuncino a una pizza e passino qualche ora nell’emozionante compagnia di Solimano, il capitano della Torre di Galata.

Alla base delle vicende c’è un solido zoccolo documentario: siamo nella Grecia sottoposta alla Sublime Porta nei primi anni Venti dell’Ottocento, agli inizi della riscossa patriottica che, nel lungo secolo del risveglio dei popoli oppressi, vide l’Egeo tingersi di rosso come nessun’altra parte d’Europa. Il racconto si conclude però a Istanbul, con il sanguinoso episodio del massacro dei Giannizzeri, voluto da Mahmud II nel 1826 per eliminare un corpo armato che ormai, come i pretoriani al tempo dell’Impero di Roma, si era arrogato il ruolo di faiseur de roi. L’erudizione però è del tutto espunta dal racconto, senza che esso scivoli tuttavia nell’aleatorio della pura allegoria. Il lettore curioso potrà così divertirsi a individuare il referente storico degli episodi raccontati, segnare a dito sulla carta la cittadina di Astros, il centro topografico delle vicende, o la piazzaforte di Tripoli, nell’Arcadia peloponnesiaca, consapevole però che ciò che sta a cuore a Caracci non è narrativizzare la storia, ma, manzonianamente potremmo dire, ridare a quella storia, tracciata in filigrana, forza di parole e calore di emozioni. Evitando il piano del giudizio se non mediatamente e in prospettiva assai generica, ma senza rinunciare a riaffermare, pur lontano da ogni rigidità moralistica, una propria certezza di valori.

C’è dunque Solimano, un ufficiale dei Giannizzeri che non sogna la gloria della guerra al servizio della Sublime Porta, ma vagheggia invece una sede in una provincia tranquilla, dove poter condurre una vita oscura e serena, come insegnato dai filosofi antichi. Né sete di conquista né volontà di proselitismo islamico animano un uomo di formazione militare ma che ha appeso la scimitarra al chiodo e riconosce Dio (Allah, Jahvé o θεός che sia) nella bellezza del creato, deus sive natura, e nei legami d’affetto, il buono che c’è in noi. Troverà il suo piccolo eden in un minuscolo borgo del Peloponneso, nel quale, dopo un secolo di dominazione ottomana, si era andato creando tra turchi e greci un clima disteso di reciproca tolleranza, sul filo di una quotidianità di rapporti maturata nello spirito di solidarietà dei piccoli luoghi e sul ritmo alterno, sentito ormai naturale, delle ricorrenze dell’una e dell’altra fede, la festa di San Costantino e il Ramadan, il Kurban e il Natale. Luogo bellissimo peraltro, affacciato sul mare, ricchissimo di vegetazione e con qualche resto di civiltà antiche, che Caracci descrive con il trasporto del viaggiatore incline a cedere al fascino delle terre che scopre e, insieme, con l’abilità del paesaggista cui bastano due colpi di pennello per evocare un ambiente. Nella quieta atmosfera del sud, tra genti di cuore generoso e pronte alla condivisione del poco che posseggono, perfino il giogo ottomano si era ormai stemperato in un bonario paternalismo: gli ufficiali della mezzaluna – magari davanti a un bicchiere, nel luogo deputato della convivialità, l’osteria Lagoudera – erano i primi a sorridere di certi editti, pretenziosi nella forma quanto irragionevoli nel contenuto, che Istanbul diramava alle periferie dell’impero. Eppure divampando come il fuoco sul fieno secco, la passione nazionale e l’intolleranza religiosa si diffondono, in un breve corso d’anni, con la forza di un incendio incontrollabile, separando irrimediabilmente ciò che con un lento processo stava fondendosi in unità. Alle feste succedono le stragi, il fuoco degli incendi rivaleggia con il rosso del tramonto, e la morte non risparmia nessuno, donne, vecchi, bambini.

È storia di ieri, di oggi, forse anche di domani. Caracci la racconta con stile sobrio, cedendo la parola a un malinconico Solimano, ufficiale turco innamorato della pace. Ed è storia che noi, in quest’angolo d’Italia proteso verso il mondo balcanico (o meglio, parte di esso) conosciamo assai bene, e coltiviamo anzi come una spina d’astio che avvelena il nostro senso del presente nutrendolo di veleni antichi. Splendido simbolo di un dialogo diventato impossibile è l’incapacità di assistere con la spensieratezza di un tempo, sulle coste d’Egeo ormai intrise d’odio, alle rappresentazioni della marionetta Karagöz che, in passato aveva sempre amato sdoppiarsi, come a significare una cuginanza possibile anzi ovvia, nel greco Karagiozis, con gran delizia dei fanciulli delle due comunità, accorsi a godersi lo spettacolo seduti fianco a fianco sulle panche di legno del teatrino improvvisato. Rientrato a Istanbul ma disorientato come un esule in patria, Solimano, ritrova, sulla torre di Galata che è andata acquistando il valore di un simbolo della giovinezza perduta e irritrovabile, dei suoi sogni e delle sue fantasie (una torre che riporta verso l’alto e il libero volo degli uccelli chi era precipitato negli abissi del pessimismo), quell’amico che forse potrà aiutarlo a sorridere ancora nel mesto crepuscolo della vecchiaia. Dietro le spalle, vivida nel ricordo ma perduta nelle pieghe della Storia, la visione di un momento breve di pace e armonia: “secoli di convivenza erano trascorsi indifferenti per la reciproca comprensione; ciascuno si perse in quell’odio smisurato che nulla lasciava alla pietà di Dio”.

Se è vero, come voleva Melville, che la letteratura è la grande arte di dire la verità, qui Caracci la raggiunge sui due piani di una riflessione che guarda alla società, ma costruendone la suggestiva metafora in un calibratissimo (e mai freddamente didascalico) spazio narrativo, mentre avanza, nel tempo stesso (con qualche, ipotizziamo, implicazione autobiografia), una legittima domanda sul senso della vita, “teatro delle ombre” che può talvolta sembrare povero di significato, ma solo se ci sfugge la ricchezza dei suoi singoli attimi: la pienezza è nell’istante, in ogni istante, come ben sapevano gli antichi (carpe diem). Tra malinconico ripiegamento e pieno – ma non tronfio – piacere della vita, ondeggia il sentire di Solimano, cui, con perfetto equilibrio di emozioni e di stile Caracci ha dato vita come per un piccolo apologo sui nostri sussulti del cuore, sulla nostra presenza nel mondo, sul valore di un armonioso contesto relazionale e affettivo, ciò che più assomiglia alla felicità.

 

 

 

Cristiano Caracci

Il capitano della Torre di Galata

Santi Quaranta editore, Treviso 2018

  1. 152, euro 13,00