Il fotografo dell’umano

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Tony Vaccaro ci ha lasciato un patrimonio di immagini incommensurabile

di Michele De Luca

 

«Ho scelto questo mestiere perché sono sempre stato in cerca della bellezza: una ricerca delle cose per cui valga la pena di vivere». Sono parole di Tony Vaccaro, il fotografo italo-americano, originario di Bonefro in provincia di Campobasso, nato a Greensburg, Pennsylvania, il 20 dicembre 1922 e scomparso il 28 dicembre a New York, la città che aveva celebrato i suoi cento anni con una grande mostra intitolata “Tony Vaccaro: the Centennial Exhibition”. Il fotografo è particolarmente noto per aver raccontato con le sue immagini la seconda guerra mondiale e gli anni successivi vissuti in prima persona e raccontati con oltre ventimila fotografie.

La sua carriera sarà poi dedicata alla moda e alla collaborazione con le più importanti riviste americane per le quali ha fotografato i più celebrati personaggi del bel mondo del cinema, della cultura, dell’arte, della moda e della politica. Ma altrettanta curiosità e passione lo portava a ritrarre l’ordinary people, la gente comune, a partire dai contadini del suo paese in Molise, da dove i suoi genitori erano partiti per l’America ed erano poi tornati nel 1925, dove visse gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, per poi tornare oltre Atlantico per arruolarsi nel 1944 nell’esercito statunitense con il “permesso di fotografare”. Dopo il suo ritorno negli Stati Uniti nel 1949, ha lavorato per le riviste Life e Look e poi per la rivista Flair. Molte foto dalla sua vasta collezione (nonostante 4000 immagini siano andate perdute in un incidente nel 1948) sono conservate nell’archivio di guerra e sono state pubblicate nel 2001 nel suo libro Entering Germany: Photographs 1944-1949.

Un bellissimo libro, pubblicato nel 2019 da Itaca, Tony Vaccaro. Il fotografo dell’umano, a cura di Mirko Iezzi, Antonella Annecchini, Fabiana Buscio, Alice D’Alessandro e Valentina Di Pietro, mette in evidenzia quello che, anche nelle fotografie di guerra, è stato il più autentico e amorevolmente partecipativo sguardo di Vaccaro verso l’uomo, richiamandoci alla mente il famosissimo “autoritratto” che di sé ci ha lasciato il grande commediografo latino Publio Terenzio Afro: «Homo sum, humani nihil a me alienum puto» (Sono un uomo, niente di ciò ch’è umano ritengo estraneo a me). Ci sono tanti “baci celebri” nella storia della fotografia, ma la tenerissima – e “umana” – tenerezza, come quella del  Kiss of liberation che si scambiano nel 1944 un soldato americano e una bambina a Saint-Briac-sur-Mer nella Bretagna, mentre intorno le donne fanno il girotondo, è una vera “icona” che assume un significato particolare nella tragica guerra che stiamo vivendo nella nostra vecchia Europa.

L’uomo Vaccaro ha vissuto in perfetta simbiosi con il Vaccaro “fotografo”. Come ha lui stesso raccontato, «la macchina fotografica è la mia fedele compagna da più di 70 anni e, ancora oggi, se devo uscire di casa, la prima cosa che faccio è quella di mettermi a tracolla la mia Leica. Sarà il destino di noi fotografi di avere bisogno di osservare il mondo attraverso il mirino di una macchina fotografica». Anche se le sue foto  più note e famose sono quelle scattate, per la sua “professione” ai personaggi del jet-set e del cinema come alla nostra Sophia Loren a Hollywood, al Presidente John Kennedy alla Casa Bianca e a Peggy Guggenheim in gondola a Venezia, saranno le foto di Vaccaro dedicate al suo Molise, da cui sembra che non sia mai partito (scriveva Don Giuseppe De Luca: «Nel paese dei ricordi, non ci si va, ma ci si sta»), quelle che in particolare resteranno per lui le più care, nelle quali si è realizzata la concezione e la pratica del suo fare fotografia. Ha detto: «La fotografia ha una missione: dare all’uomo il ricordo di una cosa che è esistita per un secondo, o meno […] che diventa eterno». Italo Zannier, nel breve saggio che introduce le immagini nel catalogo della mostra “La mia Italia”, colloca idealmente il lavoro di Vaccaro nell’ambito della corrente fotografica ‘umanista’, caratteristica del secondo dopoguerra e alla quale sono genericamente riconducibili altre importanti personalità italiane quali Roiter, Donzelli, De Biasi, Berengo Gardin. Nata in Francia – dove fu rappresentata soprattutto dall’opera di Doisneau e Brassaï –, la fotografia umanista è caratterizzata da un’attenzione esclusiva nei confronti dell’uomo e della sua vita quotidiana, ritratta con uno stile a cavallo tra documentazione e ‘realismo magico’, prodigo di atmosfere sospese e vagamente surreali.

Questa corrente fotografica europea, ma prevalentemente francese e di cui furono tra gli altri anche miti della fotografia come Eugène Atget, André Kertèsz e Ergy Landau, che poneva al centro delle proprie ricerche l’essere umano inserito nei suoi vari contesti sociali, nacque, com’è noto, alla fine della Seconda guerra mondiale e si è protratta fino alla fine degli anni ‘60. Anche se talora viene accomunata al cosiddetto fotogiornalismo, la fotografia umanistica si discosta per la tendenza ad osservare maggiormente il quotidiano, la strada, ed in non pochi casi, porre particolare attenzione alle classi sottoproletarie e alla condizione di svantaggio sociale. I fotografi come il nostro Tony Vaccaro cercano di catturare, oltre che freddamente e asetticamente alla scena in sé, anche le emozioni dei protagonisti in una sorta di dimensione poetica, dove i protagonisti hanno lo stesso valore del contesto. E che “tradisce” e rivendica la condizione di uomo” anche al di qua dell’obiettivo della fotocamera.

 

 

Tony Vaccaro

Il bacio della liberazione

Saint-Briac-sur-Mer, 1944

© Tony Vaccaro