Il lato politico di Fantozzi

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di Stefano Crisafulli

 

Certo, si ride, vedendo i film di Paolo Villaggio e del suo alter ego filmico, ovvero l’immarcescibile ragionier Ugo Fantozzi. Ma poi, ad un certo punto, non si ride più. Ora che Paolo Villaggio è morto, rimarrà per sempre la maschera di Fantozzi a ricordarlo, ma proprio per questo è giusto e necessario mettere in luce quel lato politico che il personaggio contiene e che molto spesso è stato disconosciuto. I film di Fantozzi vanno, insomma, smascherati per quello che sono realmente: un atto d’accusa feroce e iperbolico che mette alla berlina sia il potere, quello ottuso e crudele dei dirigenti e quello falsamente illuminato dei megadirettori galattici, sia coloro che sono sottomessi al potere da un servilismo opportunista, un misto di paura e piccola ambizione che caratterizza da sempre l’italiano medio(cre) e che Pasolini aveva a suo tempo denunciato.

Parliamo, in particolare, del primo e folgorante film d’esordio, quel Fantozzi, uscito nel 1975 per la regia di Luciano Salce, che sarà il capostipite di una lunga serie. Rivedendolo per l’ennesima volta e ridendo per le scene già così ben conosciute, dall’epico tentativo di prendere l’autobus al volo dopo aver bevuto il maledetto caffè della signora Pina (tremila gradi Farhenheit!) alla tragicomica partita di calcio tra scapoli e ammogliati, sotto la pioggia battente, finita tre (infarti) a due (annegati), dalla gita al lago con Filini (Gigi Reder), tormentata da svariati incidenti con martello e picchetti e da un groviglio di lenze che porterà i due aspiranti pescatori ad avere allucinazioni mistiche alla cena con la signorina Silvani (Anna Mazzamauro) in un ristorante giapponese piuttosto ligio alle tradizioni orientali. Eppure, almeno in questo primo film, ci sono anche dei momenti di ribellione. Ad esempio quando il Cavalier Catellani, nominato Gran Maestro dell’Ufficio Promozioni e appassionato di biliardo, invita i dipendenti a giocare contro di lui perché sa di poter vincere facilmente, visto che nessuno di loro oserebbe imporsi. Fantozzi viene sfidato il giorno che prende a male parole la statua della madre di Catellani, a cui gli impiegati devono rendere omaggio. Inizialmente umiliato, Fantozzi finalmente reagisce mostrando le sue reali capacità e surclassando il vanesio dirigente.

Ma il lato politico di Fantozzi viene fuori soprattutto nel finale. Il ragioniere ha chiesto un trasferimento d’ufficio e si trova a lavorare assieme a tale Folagra, un ‘intellettuale di estrema sinistra’ da tempo esiliato lì. All’inizio c’è diffidenza, ma, grazie a lui, Fantozzi scopre che ‘il padronato e le multinazionali’ lo hanno sfruttato sino ad allora. Così una mattina, capelli lunghi e sciarpa rigorosamente rossa al collo, arriva alle porte dell’azienda e, con tutta la rabbia accumulata negli anni, lancia un sasso che rompe il vetro di una finestra. Gli appare subito il megadirettore galattico, che non lo punisce e, anzi, lo fa entrare nel suo ufficio. Comincia una scena surreale: l’ufficio, intanto, sembra una cella di un monaco, senza nessun orpello o comodità e il megadirettore cerca di convincere Fantozzi sulla loro presunta uguaglianza, in nome di un ordine universale ed intoccabile. Peccato che, ben presto, le leggende sulla poltrona in pelle umana e sull’acquario degli impiegati si dimostrano vere e a Fantozzi non rimane che proporsi come triglia. Basta sostituire il megadirettore con un qualsiasi amministratore delegato di oggi e lo sfruttamento degli impiegati con uno sfruttamento più generalizzato e voilà: Fantozzi è ancora tra noi.