IL MONDO È LÀ
Arte moderna a Trieste. 1910-1941 (prima parte)

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Figura 6Figura 2Chiude veramente “in bellezza” la Provincia di Trieste con questa mostra al “Magazzino delle idee” un suo percorso di stimolo alla cultura, iniziato quasi dieci anni fa, che ha visto tra i momenti espositivi di maggiore rilievo mostre importanti come quella di Lojze Spacal al Magazzino del Molo IV, principale evento nel 2007 per ricordare il centenario della nascita dell’artista ed è poi proseguita con altre iniziative ed eventi tutti di elevato livello qualitativo, e in particolare con le esposizioni, alcune delle quali strepitose, nel restaurato Magazzino delle idee (basti ricordare quelle di Bogdan Grom, nel 2012, “Manlio Malabotta e le arti” nel 2013, che ha riportato a Trieste l’eccezionale collezione di opere di de Pisis conservate a Ferrara, “L’Europa in guerra. Tracce del secolo breve”, senz’altro la più interessante mostra sulla Grande guerra tra le molte che si sono succedute nel 2014, “Cento Novecento”, con l’esposizione delle opere collezionate dalla Fondazione CRTrieste, e molto altro. Nella modestia dell’offerta culturale triestina, la Provincia si è distinta per la validità delle sue scelte, improntate alla valorizzazione del patrimonio culturale del territorio, in una visione equilibrata, che tiene conto delle sue componenti etniche e linguistiche, offrendo sempre al pubblico (per di più a titolo gratuito) prodotti espositivi della massima qualità, accompagnati da conferenze, visite guidate ed altri eventi collaterali che hanno ulteriormente arricchito quanto si intendeva presentare.

Chapeau!

Non fa eccezione – anzi costituisce forse il coronamento e insieme il riassunto di un’intensa attività di produzione culturale della quale si è detto – questa mostra intitolata “Il mondo è là. Arte Moderna a Trieste. 1910-1941, curata da Patrizia Fasolato, Enrico Lucchese e Lorenzo Nuovo, che fin dal titolo intende collegarsi idealmente a una storica mostra allestita al Museo Revoltella nel 1991 “Il mito sottile”, della quale uno schizzo di Gino Parin riportato sul materiale a stampa relativo a quella esposizione, costituì il riferimento simbolico più evidente e trasparente, al punto da essere da molti ricordato come il titolo della mostra. Nell’appunto grafico Parin, tratteggia in uno schizzo lo spigolo di una facciata, una finestra e sopra il tetto tre comignoli. Una freccia s’incurva salendo davanti la facciata e oltre il tetto, recando alla base, in corsivo, la scritta “Il mondo è là”, a definire un “altrove” in cui i triestini erano (e in parte sono) abituati a pensare un loro centro di gravità, soprattutto prima dell’annessione all’Italia in esito alla Grande guerra.

L’intervallo temporale considerato dalla mostra si apre nel 1910 e non si tratta di una scelta arbitraria: in quell’anno, difatti, la Biennale di Venezia allestì una sala riservata agli autori giuliani, sintomo di un rinnovato interesse della cultura italiana per le aree “irredente”, forse sollecitato anche dalla pubblicazione sulla Voce di Prezzolini delle Lettere triestine con le quali Scipio Slataper presentava per mezzo di una sua ruvida e irridente analisi la propria città agli italiani.

E proprio da quella sala – la 26 – della Biennale 1910 parte la mostra, che si prefigge fin dai primi passi di descrivere e definire l’identità artistica degli autori giuliani nel periodo preso in esame, com’è noto particolarmente problematico e denso di eventi per l’area geografica considerata. Sin dalle prime opere esposte i curatori si sono premurati di offrire uno spaccato dell’ambiente sociale oltre che culturale in cui prende le mosse la loro riflessione: ambiente della borghesia triestina di lingua italiana, tenacemente irredentista anche contro il proprio interesse economico e quello della città, riunita in ambienti quali il Circolo artistico e capitanata da un critico allora non ancora quarantenne, Silvio Benco, che si era già installato stabilmente al centro della vita culturale della città, determinandone spesso i gusti dalle pagine dell’Indipendente prima e del Piccolo poi. I primi nomi in cui s’incappa nel percorso tracciato per i visitatori sono quelli di Barison, di Flumiani, di Cambon, e di Piero Marussig, presente con un Ritratto della madre (1910) proveniente da Brera e di una Bambina con palla, eseguita qualche anno più tardi. Come si testimonia già da questo primo addentrarsi, il clima era ancora abbastanza legato a modalità espressive proprie dell’Ottocento, mentre già in Italia s’era scatenato il movimento futurista, con le sue urgenze di avanguardia destinato tuttavia per il momento a rimanere lontano dagli ambienti artistici giuliani, dove approderà più tardi.

In generale, la pittura giuliana, anche se cercava – lo testimonia proprio Marussig – vie nuove, rimane ancora lontana da ogni anelito d’avanguardia e del resto la medesima Biennale del ’10 ha ospitato anche l’importante personale di Gustav Klimt, a sua volta un artista molto ricercato, ma che aveva esaurito ormai il suo portato di innovazione, anche se naturalmente era ancora in grado di influenzare, ad esempio, Michelstaedter (suicida proprio in quel 1910) o Vito Timmel, del quale è visibile al Magazzino delle idee un piccolo gioiello, l’Amazzone, del 1916.

Un primo passo verso l’abbandono delle forme passatiste che erano all’epoca il terreno condiviso dagli artisti giuliani deriva da Parigi, che non era già più da qualche tempo quella degli impressionisti, ma il luogo invece dove si andavano affermando nuove sensibilità, come il gusto fauve, scoppiato al “Salon d’Automne” del 1905, che nella sua breve durata non seppe organizzarsi in autentico movimento, ma destinato tuttavia a lasciare un solco importante nella pittura del Novecento, segnando una tappa significativa del post impressionismo. L’esposizione triestina indica nella scelta divisionista di Vittorio Bolaffio, che sicuramente nel suo periodo parigino aveva conosciuto il pointillisme di Paul Signac e di Georges Seurat, un primo profilarsi di una pittura nuova che trova un singolare riscontro nel confronto tra un ritratto dell’autore triestino (Ritratto di Carlo Bolaffio) con un Ritratto del dott. Gopcevich, dipinto nel 1906 da Umberto Boccioni, non ancora folgorato dalla fede futurista, proprio nell’anno di un suo prolungato soggiorno parigino.

Firenze, dunque, e Venezia e Parigi e poi ancora Venezia, che non era soltanto la Biennale, ma anche, in particolare per gli artisti più giovani, la Permanente di Ca’ Pesaro, da cui provengono tre opere estremamente suggestive: Prue dentate, un’elegante composizione di Guido Marussig centrata sui profili laterali dei ferri di prora di tre gondole veneziane (quelle stesse che i futuristi sollecitavano di dare alle fiamme come simboli di passatismo) e due altri paesaggi immersi in una luce serale e quasi ormai notturna, opera rispettivamente di Umberto Moggioli e di Pietro Lucano, entrambi di profonda suggestione e volutamente accostati dai curatori, come nei ritratti di Boccioni e Bolaffio di cui s’è detto e in molti altri lavori esposti, a suggerire analogie o contrasti o linee evolutive.

Poi, dopo l’attentato di Sarajevo, c’è stata la guerra e nulla è stato più come prima, in Europa, certo, ma in particolare nella Venezia Giulia, dove alcuni furono avviati a combattere nelle file dell’esercito imperial regio, altri disertarono e, raggiunta l’Italia, si arruolarono volontari sotto falso nome per evitare la forca, in caso di cattura da parte del nemico.

Due opere, di nuovo a confronto, si riferiscono esplicitamente agli eventi bellici e post bellici, entrambe caratterizzate dalla presenza di una carta geografica: La musa metafisica, di Carlo Carrà del 1917 (presente purtroppo solo grazie a una copia digitale), che include una carta dell’Istria, dipinto pensato e realizzato nei giorni bui di Caporetto, e una Figura con pipa, di Gino Parin, del 1920, che riproduce, appesa alla parete di fondo, una carta della Penisola che include la costa dalmata, a riecheggiare lo slogan della “vittoria mutilata”.

  1. continua