Il riuso del Porto Vecchio

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Una palestra di sperimentazioni per una zona da ripensare

di Enrico Conte

Ho provato a parlare,

Forse ignoro la lingua.

Tutte frasi sbagliate.

Le risposte: sassate.

 

Giorgio Caproni, Sassate

 

Porto Vecchio è entrato, dal 1° gennaio 2017, nelle proprietà del Comune di Trieste, uno spazio della città destinato, nelle previsioni, ad ospitare merci in transito e in trasformazione per il suo regime speciale di punto franco internazionale ma, nei fatti e per una molteplicità di ragioni, per decenni tenuto in stato di semi abbandono (con l’eccezione, negli ultimissimi anni, della Centrale Idrodinamica, della Sottostazione elettrica e del Magazzino 26, recuperato, quest’ultimo, solo come contenitore).

Seicentomila mq, corrispondenti a una porzione significativa di città, collocati al suo ingresso tra Barcola e la Stazione Centrale, articolati in una serie di Magazzini realizzati negli ultimi anni dell’800 sulla base di un progetto dell’ingegner Paulin Talabot che, nel 1865, vinse il concorso per la costruzione del nuovo porto bandito dall’Imperatore Francesco Giuseppe. L’intera area, nel 2001, venne sottoposta ai vincoli e alla tutela del Codice dei beni culturali e del paesaggio.

Una città spettrale che ha accompagnato Trieste e i suoi abitanti per decenni, simbolo incantato (e acceleratore) di immobilismo, di una decadenza accettata come ineluttabile e trasmessa come una necessità, un’enclave distopica che assisteva silenziosa alle trasformazioni di fine ‘900 delle grandi città europee con fronte mare.

Una palestra di sperimentazioni per una zona da ripensare non solo in termini di pianificazione, programmazione e progettazione di opere pubbliche, ma quale laboratorio sul campo per pratiche multidisciplinari che servano per dare nuovo significato e che siano di stimolo per il reimpiego di un bene pubblico che deve diventare città, acquistare una nuova configurazione spaziale e sociale e diventare un “luogo”, nell’accezione diventata famosa di Marc Augé.

I grandi cambiamenti che in questo 2017 stanno attraversando Trieste (la sdemanializzazione di Porto Vecchio, il Porto Nuovo di interesse per la Cina e la Via della Seta, i regolamenti attuativi del Punto Franco e, da ultimo, Trieste Città della Scienza nel 2020), porteranno sul territorio grandi investitori immobiliari e capitali finanziari. Ma gli obiettivi di una trasformazione dovranno, auspicabilmente, coinvolgere i cittadini, gli organismi intermedi e le Istituzioni in chiave propositiva, attraverso atti di attiva partecipazione (resistenza vitalistica li definisce Peter Sloterdijk) che diano voce alla comunità locale per strutturare le finalità di quella riconversione e per dare contenuti a una nuova destinazione d’uso che rischia, altrimenti, di restare appannaggio di chi, per forza economico-finanziaria, impone le sue scelte che, prima che essere “tecniche”, dovrebbero essere di visione.

Porto Vecchio, da collegare ai più importanti simboli dell’era industriale (Ursus, Gasometro, Museo Ferroviario di Campo Marzio, la ex CRDA, la Ferriera), per un unico grande bacino di utenti che possano visitare una città che si reinventa e si rinnova nei suoi spazi pubblici, che trasforma i suoi reperti di archeologia industriale in contenitori culturali secondo le esperienze collaudate altrove, si pensi, per tutte, al bacino della Ruhr in Germania, diventato patrimonio dell’Unesco.

“L’aspetto fisico della città – sostiene Anna Lazzarini – il suo corpo, appare come oggetto di un conflitto incessante di presenze, di riscritture materiali, di riusi, di cambiamenti,di rappresentazioni o di funzionalità delle stesse strutture… L’esperienza della città si dispiega, da una parte, fra memorie, storie, tradizioni che diventano monumenti e dall’altra proiezione nel futuro, necessità di pensarsi continuamente entro una dimensione di ulteriore destinazione. E in questo scarto fra ciò che è stata e ciò che sarà, fra la trama di significati che sono stati condivisi e il disegno che progetta di perseguire, si apre la dimensione politica della città: la politica in quanto tale è infatti caratterizzata da un’ intensa idealità costruttrice capace di trascendere la quotidianità”.

Concludo queste brevi righe con Salvatore Settis che, sul tema dei beni culturali, si interroga se esistano davvero specialisti del paesaggio che siano in grado, con piena competenza, di affrontare tutti gli aspetti di un problema, da quelli estetici, storico-artistici, geografici, architettonici, giuridici, sociologici, antropologici. Non sarà forse meglio, si chiede lo storico dell’arte, partire dal semplice assunto che un tema come questo non è pertinenza esclusiva di nessuna disciplina?

 

P.S.: “Il nostro rapporto con la storia è un rapporto con immagini già predefinite e impresse nella nostra mente, immagini che noi continuiamo a fissare mentre la verità è altrove”. (W. G. Sebald – Austerlitz)

 

 

Generazioni di ragazzi hanno attraversato quel tratto di strada in viale Miramare, lasciandosi accanto hangar in rovina e traversine abbandonate, coperte da un deposito di polvere il cui significato e le cui proprietà pedagogiche possono essere colti riprendendo una famosa frase di Winston Churchill “diamo forma ai nostri edifici e da quel momento i nostri edifici danno forma a noi”.

La prospettiva dalla quale si è partiti per realizzare il gesto fotografico con alcuni ragazzi è stata quella di avviare, con loro, i primi passi di una riappropriazione simbolica di uno spazio, una sorta di “urbanizzazione immaginaria” che vedesse i vialoni interni al Porto Vecchio trasformati in piazze pubbliche, animate dalla forza e dall’idealismo di una generazione da Riportare(in) Porto Vecchio, ambito urbano questa volta di transito e non di barriere e di preclusioni.

Tra i gesti e le tecniche, da una parte, e lo spirito e l’immaginazione, dall’altra, non c’è discontinuità, ma si tesse piuttosto la grande trama delle umane vicende. Lo storico israeliano Yuval Noah Harari, sostiene che ciò che sta alla base dello sviluppo umano è l’immaginazione: nelle scelte individuali come nella prospettiva collettiva, ed è pertanto anche con questa chiave di lettura che possono leggersi le fotografie proposte alla redazione de Il Ponte rosso.