Il robot perturbante 3

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I racconti di Hoffmann e gli automi

di Giuseppe O. Longo

 

Anche nel caso del perturbante e delle sue radici psicologiche scrittori e registi hanno fornito e forniscono abbondante materiale di indagine per gli psicologi e gli psichiatri. A proposito dell’inconscio, Italo Calvino, riferendosi ai racconti di quel singolare personaggio che fu Hoffmann, scrisse: «La scoperta dell’inconscio avviene qui, nella letteratura romantica fantastica, quasi cent’anni prima che ne venga data una definizione teorica».

Ernst Theodor Wilhelm Hoffmann (1776-1822) nacque a Königsberg, Prussia orientale, oggi Kaliningrad, in Russia. Il padre era avvocato a Königsberg, ma era poeta e musicista dilettante. Nel 1767 sposò la cugina Luise Albertine Doerfler (1748-1796). Ernst Theodor Wilhelm (che nel 1805 avrebbe cambiato il terzo nome in Amadeus in omaggio a Mozart) ultimo di tre fratelli. Nel 1778 i genitori si separarono e lui rimase con la madre, che si trasferì presso la famiglia di origine, composta da due zie nubili, e da uno zio scapolo, burbero e severo, Otto Wilhelm, cui fu affidata l’educazione del bambino. Il periodo trascorso in questa famiglia piuttosto soffocante doveva lasciare un’orma indelebile nello scrittore, che dal padre aveva ereditato una spiccata vena artistica, mentre la madre, ipersensibile e soggetta a depressioni, gli aveva consegnato un carattere incline al fantastico e al visionario.

Dopo la laurea in legge, Hoffmann intraprese una carriera di funzionario in varie città della Germania e della Polonia, e sarebbe troppo lungo seguirlo nei suoi spostamenti. Mette tuttavia conto menzionare l’incidente occorsogli il martedì grasso del 1802 a Posen (oggi Poznan, in Polonia), dove svolgeva il suo primo incarico: durante un ballo furono distribuite le caricature di alcuni ufficiali dell’esercito, di cui fu facile individuare l’autore. Le autorità di Berlino, cui erano state presentate delle rimostranze, decisero di “promuovere” il giovane spedendolo a Płock, nella Prussia Orientale (oggi nella Polonia Centrale), dove giunse nell’agosto 1802 con la novella sposa polacca. Dopo un soggiorno a Varsavia, Hoffmann tornò a Berlino, dove svolse una multiforme attività: scrittore, musicista, disegnatore e critico musicale.

È del 1809 il suo primo racconto fantastico (Il cavalier Gluck), cui ne seguirono molti altri, che presero spesso le mosse dai traumi psichici della sua infanzia (Racconti fantastici alla maniera di Callot) e dal suo interesse per l’occultismo e l’ipnotismo (Gli elisir del diavolo). Sempre sull’orlo dello squilibrio, in lui si dissolveva la distinzione tra sogno e realtà: tipico in questo senso L’uomo della sabbia, cui accennerò più avanti. Perseguitato dal timore di diventare pazzo, Hoffmann approfondì l’argomento della follia studiando i ricoverati nel manicomio di Bamberga e le persone che incontrava grazie al suo lavoro di consigliere giudiziario a Berlino. Morì di sifilide a 46 anni, nel 1822.

Hoffmann fu autore di racconti gremiti di creature chimeriche e demoniache. Come la sua vita si svolse nel contrasto tra la scrupolosità impiegatizia e la passione artistica, allo stesso modo nelle sue opere compaiono fianco a fianco, talora sovrapponendosi e compenetrandosi, il mondo della quotidianità, visto come assurdo e artificioso, e il mondo della fantasia e del sogno, considerato ovvio e naturale. L’estraneità dello scrittore rispetto all’esistenza ordinaria gli consentì di gettare uno sguardo sugli aspetti ambigui della natura e dietro la facciata della vita borghese. Non si dimentichi che negli stessi anni Mary Shelley compose il suo Frankenstein, John Polidori il Vampiro, e che, soprattutto in Germania, fioriva la letteratura gotica e orrorifica.

Molti furono gli scrittori influenzati da Hoffmann, da Baudelaire a Balzac, da Puškin a Gogol a Poe. In ambito musicale, il nostro fu compositore prolifico e originale, mentre i suoi personaggi ispirarono altri musicisti, tra cui Offenbach (I racconti di Hoffmann) e Čiajkovskij (Schiaccianoci e il re dei topi).

 

L’uomo della sabbia (Der Sandmann)

 

Nei racconti di Hoffmann s’incontrano spesso gli automi, a volte talmente simili agli umani da trarre in inganno gli osservatori più acuti: non si dimentichi che il Settecento aveva visto una fioritura senza precedenti di queste macchine meravigliose e inquietanti. Un racconto, emblematico fin dal titolo, è L’automa, epitome di quella meccanica misteriosa e allucinata tanto cara allo scrittore. L’automa si presentava nell’aspetto e nelle vesti esotiche di un Turco ed era in grado di fornire risposte a chi l’interrogava sussurrandogli la domanda nell’orecchio destro. A volte, alzando il braccio, l’automa minacciava l’interrogante o si rifiutava di rispondere. In ogni caso, dopo un certo numero di risposte il mago che lo manovrava «infilava la chiave nel fianco sinistro della figura, caricando con gran fracasso una macchina ad orologeria».

Nel racconto del 1815, L’uomo della sabbia, comparso nella raccolta dei Notturni (1816), si affronta il tema dell’ambiguità e del doppio e il rapporto tra essere umano e automa. È uno scritto esemplare per quanto riguarda il tema del perturbante.

Fin dall’infanzia il protagonista del racconto, Nataniele, è ossessionato e terrorizzato da Coppelius, un amico di famiglia, avvocato e alchimista, su cui il bambino proietta i tratti malvagi del padre. In seguito, durante gli studi universitari di giurisprudenza, Nataniele si sente perseguitato da una sorta di “doppio” dell’avvocato, il fabbricante italiano di occhiali Coppola. Fidanzatosi con Clara, ragazza affettuosa e concreta, il giovane acquista da Coppola un binocolo che gli consente di scorgere, nel palazzo di fronte, appartenente al professor Spalanzani, una bellissima fanciulla, che lui crede essere Olimpia, la figlia del professore, di cui s’innamora perdutamente. In realtà Olimpia è una bambola meccanica di cui il giovane non riesce a scorgere la vera natura, nonostante le tante prove che agli occhi degli altri sono evidenti. In seguito a un incidente Nataniele scopre che Olimpia è un automa e per il trauma impazzisce. Dopo un ricovero in manicomio, passa la convalescenza a casa, tra le cure dei familiari e di Clara. Un giorno, dopo la guarigione, Nataniele e la fidanzata salgono su una torre per osservare dall’alto il panorama della città. Quivi il giovane usa il binocolo di Coppola e impazzisce di nuovo credendo di vedere anche in Clara un automa. Dopo aver tentato invano di precipitare la fidanzata dalla torre, Nataniele si getta nel vuoto e muore.

Anche oggi, dopo duecento anni, L’uomo della sabbia ci turba e ci inquieta: in primo luogo per la ricchezza di suggestioni sul meccanismo della proiezione che agisce nelle nostre relazioni con gli altri, in particolare con le persone che più ci sono vicine e con cui i rapporti sono più intensi, come nell’innamoramento. Come in altri racconti di Hoffmann, anche qui si svolge una lotta tra il bene e il male, che si concreta nella distinzione operata da Nataniele tra le parti buone e cattive delle persone a lui care: ma questa distinzione è intorbidata dai cupi presagi e dai deliri del giovane, tipici dei pazienti affetti da schizofrenia, paranoia e psicosi varie.

Di rilievo è anche lo sforzo compiuto da Clara, donna autonoma e razionale, di spiegare i meccanismi del male e dell’inconscio[1]. Questa analisi rispecchia il continuo tentativo di Hoffmann di scomporre l’io per scoprirne il funzionamento profondo.

 

 

(3-continua)

 

 

 

 

[1]           Lo scrittore infatti mette in bocca alla giovane Clara queste parole: «Se esiste un potere oscuro e ostile che introduce a tradimento nel nostro cuore un filo con il quale ci afferra e ci trascina su una strada pericolosa e mortale che altrimenti non avremmo mai battuto… se un potere siffatto esiste, esso deve prendere dentro di noi la nostra stessa forma, anzi deve diventare il nostro io. Soltanto così infatti possiamo credergli e concedergli quello spazio di cui ha bisogno per compiere quell’opera segreta.»