Il sapere capillare

| | |

di Michele Diego

 

È il 27 gennaio 1957 e in televisione va in onda una puntata del quiz “What’s my line?”, in cui diversi personaggi dello spettacolo devono indovinare la professione di un concorrente ponendogli una serie di domande. Quella sera il concorrente è un azzimatissimo e compiaciuto Salvador Dalì e gli ospiti vengono bendati per impedire loro di riconoscerlo. La trasmissione diventa presto irresistibilmente paradossale perché Dalì pretende di rispondere affermativamente a tutte le domande che gli vengono poste: sei un perfomer? Sì; un’atleta? Sì; un comico? Sì; un fumettista? Sì; uno scrittore? Sì.

Ad lì là dei comici cortocircuiti televisivi daliniani, Dalì aveva davvero una ossessione assoluta per l’ideale rinascimentale dell’uomo impegnato in tutte le arti. Si vantava per esempio di come nei suoi quadri, a detta sua, avrebbe addirittura anticipato le scoperte della fisica nucleare e della relatività di Einstein. In un’altra occasione ha parlato della sua superiorità su Chaplin, in quanto lui era divertente come Chaplin, ma Chaplin non sapeva dipingere come lui. La sua insomma era una ricerca spasmodica dell’eclettismo più sfrenato.

Il contrario di quanto avviene oggi. E io me ne rendo conto specialmente in campo scientifico: la quantità di articoli che vengono pubblicati, di esperimenti effettuati, di risultati ottenuti, rende impensabile l’abbracciare in toto il sapere. E non parlo della differenza tra un astrofisico e un medico, parlo della differenza tra fisici che lavorano in laboratori divisi da un’unica parete: per l’uno è pressoché ignoto cosa stia facendo l’altro.

D’altra parte è chiaro che un mondo dominato dalla tecnica, in cui l’uomo non è il fine ultimo della ricerca, bensì uno strumento utile all’incremento della tecnica stessa, non potrà far altro che rendere gli studiosi iper specializzati in dei micro settori. E visto che è utile che quanti più uomini partecipino attivamente allo sforzo, ci sarà sempre più una democraticissima specializzazione di un numero sempre più elevato di persone. In numeri, più del novanta percento dei dati raccolti dall’umanità durante la sua storia appartiene agli ultimi quattro anni – alla faccia dei monaci amanuensi. In una società del genere, è evidente come l’eclettismo alla Dalì diventi un lusso elitario per quella minuscola percentuale di umanità che ha contemporaneamente il desiderio di apprendere e la possibilità tenersi in disparte dal mondo.

Una domanda sul tema la posi qualche anno fa a Claudio Magris. Essendo lui riconosciuto come un uomo dalla cultura sterminata, gli chiesi cosa volesse dire essere uomini di cultura in un’epoca in cui la specializzazione prevarica la cultura universale. Lui mi rispose che preferiva una società di uomini mediamente alfabetizzati, pensanti e specializzati in un compito, piuttosto che una società fatta dal novantanove percento di ignoranti analfabeti e un un percento di menti geniali e dotte.

Io avevo qualche perplessità, e ce l’ho tutt’ora. Se da una parte capisco la posizione di chi ambisce a un mondo più equo e paritario, dall’altra soffro per la consequenziale e inevitabile perdita di cultura che ne deriva. La specializzazione è, in un certo senso, nemica del sapere.

Per incrementare illimitatamente la tecnica, saremo naturalmente destinati a dimenticarci del latino, delle poesie a memoria, della lettura dei classici, della filosofia come approccio alla vita. Tutti noi osserviamo in maniera lampante quanto sto dicendo. Ma il paradosso verso cui tendiamo è questo: presto arriveremo a un punto in cui la tecnica sarà così sofisticata da ritenere noi umani un impiccio, uno strumento troppo imperfetto per essere utile. Allora la tecnica proseguirà da sola, attraverso l’intelligenza artificiale. E c’è chi teorizza che a quel punto l’uomo sarà definitivamente libero, libero di occuparsi solamente di bellezza, di poesia, di arte. Ma quando l’intelligenza artificiale sarà più intelligente di noi, siamo sicuri che noi avremo ancora la capacità di essere umanamente intelligenti?