Il tocco umano di Doisneau

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Una bella mostra Museo della Grafica – Palazzo Lanfranchi di Pisa

di Michele De Luca

 

“Chi non ha mai provato la gioia che dà l’incontro di un istante in cui tutto pare organizzarsi in una storia di armonia provvisoria, non può capire ciò che spinge un individuo a cercare e a voler cogliere altri momenti simili con l’aiuto di una scatola nera munita di un occhio di vetro”. Sono parole del grande fotografo francese Robert Doisneau (Gentilly 1912Montrouge 1994), un “poeta” della fotocamera, che nell’arco della sua lunga carriera ha saputo (e consapevolmente voluto) sempre coniugare un rigoroso impegno professionale con una ricerca personale da “dilettante” registratore di immagini.

Dopo aver ottenuto il diploma di disegnatore litografo alla Scuola di Estienne, a soli venti anni vende a L’Excelsior il suo primo reportage sul “Marché aux Puces”, manifestando subito il campo prediletto delle sue cacce fotografiche e che avrebbe poi, con amore e curiosità, inesauribilmente scandagliato per oltre mezzo secolo: la Parigi più vera e verace, la Paris della banlieue, dei boulevard della rue, dei bambini e degli innamorati. Nel 1939 incontra Charles Rado, fondatore dell’agenzia Rapho, e diventa allora fotografo professionista. Non è però a questo aspetto professionale che mette a fuoco la mostra a lui dedicata al Museo della Grafica – Palazzo Lanfranchi di Pisa, curata dall’Atelier Robert Doisneau – Francine Deroudille e Annette Doisneau – in collaborazione con Piero Pozzi, e con il titolo “Robert Doisneau. Pescatore di immagini”. Le foto selezionate ci riconducono infatti a quella parte della sua attività fotografica più amata, realizzata per diletto personale, che la “costrizione” e spesso l’aridità del suo impegno professionale rendeva più piacevole in quanto vi si proiettava il suo bisogno di libertà, la sua smania di felicità. Sia che fotografasse i bambini nei loro giochi, gli innamorati che non si curano dei passanti, la vita delle periferie, l’universo della rue, l’evento quotidiano apparentemente insignificante, Doisneau ci ha restituito, con dolcezza e con un sottile ironia, l’armonia di un vivere forse definitivamente perduto, ma che le fotografie riescono a far rivivere.

Nelle immagini di Doisneau la poesia è nelle cose, nel piccolo o grande mondo che ci sta attorno: bisogna saperla cogliere; ci vuole forse soltanto pazienza, ed aspettare. In fondo, soleva dire, fotografare, raccogliere immagini, fissare la poesia del quotidiano, del proprio quotidiano, è “più facile che fare un mazzo di fiori”. Nella realtà, nella città in cui si vive e che si conosce (questa di Doisneau è la Parigi che conosciamo attraverso i romanzi di Simenon e le poesie di Prévert, suo grande amico) “i fiori vengono a disporsi da soli. Basta aspettare e scegliere”. Ma è nell’atmosfera della Parigi da lui rievocata, nell’aura velata di nostalgia che ha saputo cogliere e trasmetterci, che risiede il “valore aggiunto”, inarrivabile, del suo “fare fotografia”.

L’esposizione conduce dunque il visitatore in una emozionante passeggiata nei giardini di Parigi, lungo la Senna, per le strade del centro e della periferia, e poi nei bistrot, nelle brasserie negli atelier di moda e nelle gallerie d’arte della capitale francese. Il soggetto prediletto delle sue fotografie in bianco e nero, sono infatti i parigini: le donne, gli uomini, i bambini, i fidanzati, gli animali e il loro modo di vivere questa città senza tempo. È una Parigi a misura d’uomo, generosa, ma anche sublime che si rivela nella nudità del quotidiano; nessuno meglio di lui si avvicina e fissa nell’istante della fotografia gli uomini nella loro verità di tutti i giorni, qualche volta reinventata.

Il suo lavoro di intimo spettatore appare oggi come un vasto album di famiglia dove ciascuno si riconosce con emozione. Oramai notissimo anche al grande pubblico, dopo essersi diplomato alla “Ecole Estienne”, scopre la fotografia da giovane, mentre lavora in uno studio di pubblicità specializzato in prodotti farmaceutici. Nel 1931 è operatore da Vigneau e nel 1934 è fotografo per le officine Renault da dove viene licenziato cinque anni più tardi per assenteismo. Nel 1939 diviene fotografo-illustratore free-lance, cinque anni dopo la Galleria Chateau d’Eau di Toulouse espone le sue opere e, a partire dagli anni Settanta, ottiene i primi importanti riconoscimenti. Da allora le sue fotografie vengono pubblicate, riprodotte e vendute in tutto il mondo. Autore di un grande numero di opere, principalmente su Parigi, Doisneau è diventato il più illustre rappresentante della fotografia “umanista” in Francia. Le sue immagini sono oggi conservate nelle più grandi collezioni in Francia, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna e sono esposte in tutto il mondo.

“Quello che io cercavo di mostrare era un mondo dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili, dove avrei trovato la tenerezza che speravo di ricevere. Le mie foto erano come una prova che questo mondo può esistere”. Di questo mondo, che non era solo un sogno utopico, magari realmente esistente, ma che esigeva di essere “scoperto” e rintracciato tra le strade e piazze di una grande metropoli, rimane come simbolo (tanto che è diventato una “icona” del secolo appena trascorso, sedimentata e archiviata nell’immaginario collettivo di tante generazioni) il famoso Le Baiser de l’Hôtel de Ville (1950): qui l’immagine – di cui si è anche discusso circa la sua vera origine e “spontaneità”; ma che importanza ha? – supera il dato storico, per diventare un messaggio assoluto di poesia, che riesce a creare un’emozione struggente, intrisa di dolcezza e nostalgia; e che fa riaffiorare sulle labbra il capolavoro poetico racchiuso in due versi di un altro sublime “cantore” di quella che fu la Parigi di Doisneau; dell’indimenticabile Charles Trenet, che, nella sua canzone più famosa, si chiedeva (e rispondeva): “Que reste-t-il de nos amours?… Une photo, vieille photo de ma jeunesse”. Una foto, appunto.