RUSTEGHI, MA DI GARBO

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Il capolavoro goldoniano in scena a Trieste

di Adriana Medeot

 

I colori del Canaletto, ben modulati tra il verdeazzurro, qualche incursione prepotente di rosso vermiglio (il costume di donna Felice, che rappresenta il mondo nuovo), il tutto nella compostezza degli interni borghesi, non asfittici o cupi ma curiosi – che suggeriscono Longhi – è ciò che rimane negli occhi dopo aver assistito allo spettacolo I rusteghi di Goldoni, proposto al Rossetti dal 17 al 21 febbraio. Nelle orecchie risuona il ritmo ben scandito e leggero, quasi una partitura musicale, delle battute, la perfetta macchina di un testo sapientemente architettato, corale e leggero nei modi, ma non nei temi.

Giuseppe Emiliani, alla sua quindicesima regia goldoniana, ha lasciato parlare il drammaturgo, evitando interpretazioni eccessivamente autoriali, e affidando buona parte del successo della messinscena – ché di successo, non solo a Trieste ma in tutte le tappe della tournée, si è trattato – alla scelta degli interpreti. I quattro personaggi principali, Lunardo in testa, e poi Canciano, Maurizio, Simon, non appaiono sulla scena come vecchi barbogi – così come il retaggio della tradizione ottocentesca li aveva cristallizzati – sono bensì adulti nel pieno del vigore delle loro forze e delle loro convinzioni retrive. Non sono vecchi fuori, ma vecchi dentro: rappresentano una borghesia ancorata a valori ottusi, impaludata e incapace di accettare i cambiamenti morali e sociali in corso.

Rappresentata per la prima volta il 16 febbraio del 1760 al Teatro San Luca di Venezia con il titolo La compagnia dei selvadeghi, o sia i Rusteghi, la commedia, opera matura di Goldoni, ebbe fortuna, come egli stesso riporta qualche anno dopo nelle Memorie. Scritta in dialetto veneziano, costituisce uno dei più raffinati punti d’arrivo della riforma goldoniana. Dopo aver tolto dalla scena le maschere, Goldoni diede vita a una serie di commedie incentrate sullo studio di carattere, ma successivamente, come in questa opera e in quelle coeve, le personalità e le sfumature psicologiche sono ben delineate e diversificate; inoltre è già presente una consapevole critica sociale, bonaria ma non troppo. Due anni dopo, infatti, il commediografo, il cui rapporto con Voltaire è già consolidato, partirà per Parigi: ciò fa comprendere quanto ormai il suo respiro fosse europeo e fortemente influenzato dall’Illuminismo.

I temi principali dei Rusteghi sono moderni in modo rivoluzionario: lo scontro generazionale (Lucietta e il padre Lunardo), quello di genere (tra le ragioni autoritarie dei mariti e quelle sottomesse, solo all’apparenza, delle mogli), la degenerazione dei valori della borghesia mercantile che, troppo attenta alle sorti economiche e alla rispettabilità della famiglia, diventa gretta e prepotente e non sa prevedere il futuro, futuro che per la Serenissima non sarà dei migliori…

La vicenda è semplice. È tempo di Carnevale, a casa del mercante Lunardo. Margherita, la moglie, e Lucietta, figlia di primo letto, litigano su varie questioni relative alla vita sociale da tenere e sull’abbigliamento adeguato, ma concordano nel reputare troppo rigide le regole imposte dal padrone di casa, che non permette loro di uscire per comperare nuovi accessori alla moda e godere del periodo di allegria carnascialesco. Nel frattempo però Lunardo ha stipulato un accordo di nozze con un rustego par suo, Maurizio: Lucietta sposerà il figlio di quest’ultimo, Filippetto. Entrano allora in gioco Marina, moglie del burbero Simon, e Felice, donna assennata ed emancipata, le quali tramano per far sì che i due giovani possano incontrarsi prima del matrimonio combinato e conoscersi.

La commedia si conclude con la capitolazione degli uomini, che rappresentano i valori antichi, illogici, conservatori e autoritari, di fronte alle ragioni muliebri, proclamate nell’arringa finale da siora Felice, di nome e di fatto, portavoce dell’autore. Il mondo nuovo, sembra suggerire Goldoni, è delle donne.

Spettacolo veloce, frizzante, quasi un cabaret quello a cui ha assistito il pubblico triestino. Bravi gli attori, la maggior parte avvezza a portare Goldoni sulla scena. Bravi, davvero bravi. In poco più di due ore si è risolto tutto: applausi. Ai tempi d’oggi la velocità è merito. Precedenti messinscene (Squarzina del 1969, Castri del 1992) costringevano il pubblico a performance ben più provanti – tre, quattro ore – e non sempre (come non comprendere?) bene accolte, per quanto si trattasse di regie che intendevano dire la propria sul testo. Già nel 2003, Francesco Macedonio mise in scena I Rusteghi in modo più stringato e definito “vecchio stile”, perché lasciava campo alla potenza del testo e alla professionalità degli attori, mettendo in secondo piano il punto di vista della regia.

Diversamente fece Gabriele Vacis, nel suo allestimento del 2012. A metà del Settecento in Europa veniva mostrato come rarità un rinoceronte vivo, chiamato Clara, che incuriosì la gente, tanto che Pietro Longhi lo ritrasse in un suo dipinto. Vacis lo mise in scena. Era enorme, di plastica. Rappresentava la forza maschile destinata a soccombere, un monstrum. Era suggestivo, simbolico, poetico, commovente.

Ecco, ciò che forse è mancato nella messinscena di Emiliani è un esplicito punto di vista interpretativo. Certo, Goldoni parla da solo, ma talvolta una chiave di lettura metaforica forte, anche se arbitraria, può sollecitare le menti alla riflessione e il cuore alle emozioni.

 

 

Carlo Goldoni

I rusteghi

Produzione:

Teatro Stabile del Veneto

Regia di Giuseppe Emiliani

Interpreti:

Alessandro Albertin (Canciano)

Alberto Fasoli (Maurizio)

Piergiorgio Fasolo (Simon)

Stefania Felicioli (Felice)

Cecilia La Monaca (Margarita)

Michele Maccagno (Riccardo)

Maria Grazia Mandruzzato (Marina)

Margherita Mannino (Lucietta)

Giancarlo Previati (Lunardo)

Francesco Wolf (Filippetto)

scenografia di Federico Cautero

costumi di Stefano Nicolao

luci di Enrico Berardi

musiche di Massimiliano Forza,

con arrangiamenti di Fabio Valdemarin

LA RECITA DI VERSAILLES CON PAOLO ROSSI

Buio, sipario, luce, azione. No, stavolta non funziona così: sul palcoscenico già si può vedere una bizzarra compagnia di teatranti (e un cane) che sembra apprestarsi a recitare, ma non c’è filtro tra luogo scenico e platea, quasi a evidenziare che i canoni del teatro borghese non sono contemplati.

In questo Impromptu de Versailles, rivisitato da Stefano Massini, Paolo Rossi e Giampiero Solari – che firma anche la regia – bisogna abituarsi a entrare e uscire dal testo, in un continuo e acrobatico gioco di metateatro. Paolo Rossi è Moliere alle prese con una messinscena da allestire in tempi stringatissimi e con le paturnie dei suoi attori, ma è anche se stesso e i personaggi che interpreta: è passato ed è presente, è maschera e uomo, finzione e realtà.

È il 14 ottobre del 1663. Luigi XIV chiede a Moliere di allestire una pièce da rappresentare quella sera stessa. Un countdown non da poco, considerando che il successo aveva appena arriso al commediografo, gravato dai debiti, e che la sua vita professionale s’ intrecciava pesantemente con quella familiare, giacché nella sua compagnia recitavano sia un’antica amante, Madeleine Béjart, che la nuova moglie, Armande, figlia di Madeleine: le famiglie allargate di oggi hanno tutto da imparare. Inoltre, la maggior parte degli attori manifesta le proprie rimostranze per dover imparare la parte in un tempo così esiguo e, come se non bastasse, la concorrenza preme pesantemente; tuttavia Moliere riesce a risolvere l’impasse e a “portare a casa la mensilità”, ovvero a presentare la sua commedia in tempo.

Impromptu de Versailles è un’opera che lascia ampio spazio all’improvvisazione: l’occasione per una rilettura contemporanea non è sfuggita a Paolo Rossi, in linea con la sua rivisitazione dei classici da Shakespeare a Rabelais: “Moliére mi attira perché subisco il fascino di quell’epoca e, da capocomico, mi sento vicino a lui, ai suoi problemi, sia nella vita sia nella gestione della quotidianità del teatro. Mi attira perché è trasgressivo e innovatore, ma con ampio sguardo verso la tradizione”.

Già con Questa sera si recita Molière del 2003, Paolo Rossi aveva preso spunto dal commediografo francese per ragionare su un teatro che fonda le proprie radici nella tradizione, ma che è straordinariamente attuale nel suo rapporto con il potere: come non riconoscere nel Tartufo l’ipocrisia di una vasta pletora di personaggi della cronaca politica attuale, o nel rigore di Alceste del Misantropo, la paura di vivere, così comune ai giorni nostri? Satira dunque che dialoga con se stessa: “ Ai tempi di Moliere il potere si vedeva, ora è invisibile” e ancora “Non posso parodiare il potere, perché non si può parodiare una parodia”. Irriverente, sarcastico, complice e un filo piacione nel rapporto di trasgressione e complicità che instaura col pubblico, Paolo Rossi parla della funzione eversiva del teatro, o di ciò che ne rimane, ai giorni nostri.

Interpreti:

Paolo Rossi, Lucia Vasini, Fulvio Falzarano,

Mario Sala, Emanuele Dell’Aquila, Alex Orciari,

Stefano Bembi, Mariaberta Blasko, Riccardo Zini,

Irene Villa, Karoline Comarella, Paolo Grossi.

Canzoni originali di Gianmaria Testa

musiche dal vivo dei Virtuosi del Carso.

Dal 9 al 13 marzo al Teatro Rossetti.

paolo rossi