Il voto e le riforme

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Si avvia a ritornare piatta la linea del sismografo politico, dopo gli scossoni delle elezioni e dei ballottaggi, dopo i sussulti delle prime riflessioni critiche (e autocritiche). Adesso s’installano i nuovi sindaci. Nuovi almeno quelli di Roma, di Milano, di Torino, confermati quelli di Napoli e Bologna, risvegliato da un prolungato sonno regionale quello di Trieste. Nell’intervallo tra i dati definitivi dell’affluenza che hanno segnato un nuovo record dell’astensionismo e le prime proiezioni, è subito scomparsa l’espressione costernata dal volto di politici e commentatori: gli astenuti hanno avuto il loro momento di gloria e, arrivato il momento della ripartizione delle poltrone, di costoro non frega in sostanza più niente a nessuno e i piagnistei sulla disaffezione dell’elettorato vanno in naftalina fino al prossimo giro di giostra.

Il premier e i suoi più stretti sodali hanno tenuto a commentare subito che i risultati, per quanto catastrofici per il partito più importante tra quelli che reggono la maggioranza non segnalano un voto di protesta, bensì un voto per il cambiamento. Quasi che le due cose non fossero sinonimi, come ha efficacemente rilevato Sabrina Ferilli (sì, l’avvenente attrice: pare sia sempre più necessario, per capirci qualcosa della politica nostrana, affidarsi a personaggi che vengono dal mondo dello spettacolo).

Il nocciolo del confronto politico si sposta adesso sul referendum che in ottobre dovrebbe confermare la poderosa riforma costituzionale fortemente voluta dal capo del governo, che non si è sottratto all’esposizione mediatica intervenendo con determinazione in una materia che dovrebbe essere di stretta competenza parlamentare: non avrebbe del resto potuto sottrarsi, considerato il duplice ruolo del presidente del Consiglio che è anche leader del principale partito di governo.

Quanto queste elezioni amministrative hanno dimostrato, ove ancora ce ne fosse bisogno, è che il nostro sistema politico non si rassegna ad essere bipolare, come i fautori del sistema maggioritario, in anni ormai lontani, avevano preconizzato. Ci troviamo invece in presenza di un sistema quantomeno tripolare, con le conseguenze che vediamo: quando vi è equivalenza tra le tre forze politiche maggiori, in caso di ballottaggio, buona parte degli elettori della coalizione esclusa si riversano sulla meno avvantaggiata delle due rimaste in lizza, determinandone il successo, com’è accaduto a Torino. Tale semplice constatazione, unita a un numero di elettori sempre più ridotto, fa sì che la casualità abbia un ruolo sempre più preminente nella scelta del vincitore.

Riportando in ambito nazionale questo meccanismo, per il combinato-disposto tra la nuova improvvida legge elettorale e le riforme costituzionali si avrebbe un sistema politico caratterizzato da un elevato grado di governabilità, come opportunamente viene sbandierato da tutti i fautori delle riforme, ma di un grado minimo di rappresentatività. Tanto varrebbe estrarre a sorte il capo dell’esecutivo per mezzo di un’apposita lotteria nazionale, assicurandogli al contempo una granitica maggioranza nell’unica Camera rimasta a una (parziale) scelta da parte dei cittadini.

Al momento (questa nota è scritta nel pomeriggio del 23 giugno) il premier assicura di non pensarci nemmeno a mettere mano né alle riforme né alla legge elettorale, ma probabilmente nelle prossime ore la linea almeno in parte sarà modificata. Siamo del resto abituati a questi e simili giri di valzer. Resterà comunque impresentabile – a mio giudizio – una riforma per la quale si sono spesi due anni di scontro parlamentare, mentre i problemi per i quali il Paese attende una soluzione, o almeno un parziale miglioramento, risiedono altrove, lontano dai cervellotici meccanismi di riforma istituzionale pensati per sottrarre potere ai cittadini al fine di ampliare quello di una casta sempre più ristretta, che risponde soltanto a se stessa.