Una pandemia “federale”

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Forse, quando sarà finita questa brutta storia di virus, con il portato tragico delle sepolture in solitudine, con quello inquietante delle terapie intensive ai limiti della capienza, con quello miserabile delle file saltate per appropriarsi del vaccino, con il balletto indegno tra Governo e i sedicenti “governatori” – in effetti presidenti di regione – forse, si diceva, tra il fango e i detriti che la pandemia avrà lasciato dietro di sé, sarà possibile anche rinvenire qualche pagliuzza aurea, che segnali almeno l’esigenza di un ripensamento circa il fatto che non necessariamente tutto dovrà tornare come prima.

Una cosa che non è auspicabile ritornasse come prima è proprio questo regionalismo con pretese di un federalismo prepotente che ha dimostrato, e sta tuttora dimostrando, il suo profilo di forzatura istituzionale, quando non di eversione costituzionale. Come quando un sedicente governatore minaccia di chiudere autonomamente i confini della propria regione, o quando teorizza il superamento della scala di priorità fissate centralmente per l’accesso alla vaccinazione, per creare isole libere dal virus per ragioni di opportunità economica, con buona pace dell’impegno a dare priorità ad anziani e “fragili”, visione percepita come un’indebita vessatoria intromissione degli organi statali. Poi c’è quell’altro che stabilisce che siano i genitori a scegliere se mandare a scuola i figli o affidarli alla didattica a distanza, di che s’immischia il ministro dell’Istruzione? O quell’altro che intende acquistare autonomamente dosi di vaccino, in barba alla decisione dell’Unione Europea di provvedere ad acquisti centralizzati. E naturalmente, se il ministro della Salute, confortato dal parere di un Comitato tecnico scientifico, decide di chiudere alcune attività, il coro disordinatamente polifonico delle autonomie regioni indica invece nella riapertura la via più razionale per affrontare l’emergenza. O viceversa, si capisce.

Lo sconsiderato can-can di questi mesi rivela un’avvenuta regressione feudale del Paese, dove le nuove signorie sembrano riportare indietro il calendario di alcuni secoli, presentando tale vistosa regressione come una conquista di progresso, che nei fatti è il suo esatto contrario. Il tutto all’insegna di un malcelato progetto propagandistico, nell’eterna campagna elettorale, inasprita da una legislazione che, con l’elezione diretta dei presidenti delle regioni, accentua il personalismo a discapito della collegialità, un leaderismo esasperato e mimetico, quasi che i contendenti, anziché confrontarsi su contenuti programmatici, dovessero esibire la propria possente muscolatura, come avviene, ad esempio, tra i gorilla.

E intanto, in questa perpetua fiera delle vanità, si perdono di vista problemi di prioritaria urgenza, come ad esempio l’adozione di misure per la vaccinazione e l’assistenza di quanti (sono calcolati in più di mezzo milione di persone) sono tenuti fuori da ogni controllo anche sanitario: si tratta di apolidi, immigrati irregolari, Rom e Sindi, cittadini comunitari anch’essi in condizione di irregolarità. Ovvio che una politica di inclusione cozza contro un principio condensato dello slogan «prima gli Italiani», il quale però cozza a sua volta contro il principio costituzionale dettato dall’articolo 32 della Carta che nel suo primo comma afferma che «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti». I costituenti hanno a ragione veduta parlato di “individuo”, non già di “cittadino”, indicando inoltre che al suo diritto fondamentale alla salute, corrisponde un preciso “interesse della collettività”, mai altrettanto evidente che in queste drammatiche fasi dettate dall’emergenza sanitaria in cui ci dibattiamo.

Anche di fronte a un problema come questo, la Conferenza Stato-Regioni che si occupa dell’opportunità di impedire la circolazione dopo le 23 anziché alle 22 si rivela un ente più dannoso che inutile.