IN TRINCEA CON PAOLO RUMIZ

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In dieci DVD il racconto di un viaggio nei luoghi della Grande guerra.

di Francesco Imbimbo

 

L’iniziativa de La Repubblica di proporre, per mezzo di dieci DVD, un viaggio attraverso i teatri chiave della prima guerra globale è nata dall’incontro dello scrittore Paolo Rumiz e del film-maker Alessandro Scillitani, che, supportati dallo storico Lucio Fabi, hanno collazionato una quantità di toccanti e prestigiosi contributi. Definizione più appropriata sarebbe quella di un pellegrinaggio spirituale deciso a spingersi fino alle radici più oscure della coscienza europea, quasi uno scavo psicoanalitico alla ricerca delle tracce che un cataclisma culturale di portata inimmaginabile ha depositato persino in un vissuto come il nostro, che potremmo commettere la leggerezza di ritenere immune dai traumi della Grande Guerra.

Non a caso, si parte da quei Balcani che già videro Rumiz impegnato in veste di cronista in una contemporaneità assai più viva nella memoria del suo pubblico. Allora, scendere nelle trincee con i soldati è soprattutto una preziosa occasione per mappare le innumerevoli cicatrici che contribuiscono a configurare un’identità europea ben lungi dal potersi dire suturata: è l’analisi geopolitica di Lucio Caracciolo e Marco Revelli a individuare nei particolarismi tenuti a bada dai diversi imperi travolti nella catastrofe le potenziali linee di frattura con cui dovrà confrontarsi ogni futura convivenza.

Perché l’idea che di un conflitto di tali proporzioni si possa circoscrivere l’incidenza e tracciare un bilancio definitivo è solo una convenzione storiografica. Inoltre, da quel ‘14-’18, le guerre continuano a mietere vittime a distanza di parecchi decenni, seminano insidie che possono risvegliarsi in qualsiasi momento dal loro secolare letargo, marcano il territorio con veleni il cui decadimento scavalca le vite di parecchie generazioni, sfigurano il paesaggio o addirittura ne riscrivono l’orografia in maniera permanente. Così, dalle foreste di Spincourt, fradice di arsenico, ai denti cariati del Pasubio, sgretolati pezzo a pezzo dalle mine, dal vaiolo gessoso della Somme, alle avventizie “miniere di piombo” setacciate dai recuperanti di Asiago, si segnala per originalità la scommessa del progetto sulla peculiarità dei luoghi di farsi ricetto di memoria: scomparsi gli ultimi superstiti, ormai la qualifica di diretti testimoni spetta a loro. La danza delle diplomazie è illustrata con severa magniloquenza dalle fortificazioni sabaude in Sardegna, rese obsolete, prim’ancora che dal repentino scatto in avanti delle tecnologie belliche, dal ribaltamento delle strategie e degli equilibri geopolitici su cui si fondavano. Indiscrezioni assai diverse esalano dalle viscere del “formicaio di Douaumont”, leviatano dormiente nelle brughiere di Verdun, labirinto ipogeo capace di offrire ai suoi ospiti di turno un’invulnerabilità più esasperante di qualsiasi sepoltura, scandita dal maglio insonne delle batterie nemiche, una trappola acustica di cui lo stillicidio delle infiltrazioni è solo una pallidissima eco.

Per raccontare un evento che ha alimentato una delle più cospicue elaborazioni diaristiche su scala collettiva che la civiltà ricordi (anche prescindendo dalla produzione epistolare), risulta felice la scelta di adottare la formula del diario di viaggio multimediale. Infatti, se il registro confidenziale simpatizza con la sincerità delle testimonianze di prima mano (cui peraltro è dedicato un intero DVD), l’agilità dell’itinerario riscatta la stazionarietà della trincea, con tutte le limitazioni sensoriali relative alla condizione del soldato. Quasi a offrire ai sommersi di ieri, pigiati nel fango di una sconcia promiscuità tra vivi e morti, la postuma redenzione di uno sguardo a volo d’uccello: forse è in primo luogo a loro che la storia ha il dovere di spiegare uno spreco di vite così delittuoso. Se la scrittura di chi quella pagina di storia ebbe in sorte di vivere s’era dipanata a partire da una drastica contrazione dell’esperienza, forse compito della storiografia è ricomporre le tessere del mosaico per offrirci finalmente una perspicua visione d’insieme, purgata tanto dalle distorsioni della propaganda, quanto dall’urgenza delle passioni. In questo senso, la narrazione di Rumiz trascende persino le ambizioni di un onesto resoconto storiografico, trasformandosi in un autentico rito laico di riesumazione e di emancipazione dalla pelosa possessività dei nazionalismi, capaci di rimettere in riga persino i morti, pur di conseguire il monopolio sul lutto. In proposito, si ricorderà la schietta protesta di Ungaretti, di fronte alla vertiginosa rampa di Redipuglia, contro la traduzione su scala monumentale del compianto: come poteva l’uomo che tutte le piaghe della guerra recava impresse sul cuore lasciarsi commuovere dai gradoni marmorei eretti dal culto del sacrificio per capitalizzarvi il proprio raccolto di gloria? Ebbene Rumiz sembra aver ben assimilato la lezione di Ungaretti, poiché, nella sua frugalità, questo rito familiare di riappropriazione del lutto è passaggio necessario per riaffidare quelle reliquie alle cure di una memoria condivisa.

Se i primi passi lungo le banchine del porto di Trieste, oggi sontuosa scenografia di un’estinta grandezza, sono ritmati sul convoglio funebre di fantasmi che vanno inconsapevoli a seppellire l’Europa di ieri, quale capolinea più indicato del sacrario che meglio restituisce alla tragedia le sue dimensioni? D’altra parte, considerata la prerogativa di rappresentare un mosaico etnico quanto più composito, persino un quieto, anonimo camposanto austroungarico riesce a rendere testimonianza alle reminiscenze del “concerto europeo” con maggiore efficacia. Se già una postazione italiana doveva apparire un variopinto crogiuolo di dialetti, ci sorprendiamo a figurarci i problemi di comunicazione con cui doveva confrontarsi un esercito come quello imperiale, chiamato a irreggimentare diciotto nazionalità diverse, per undici lingue complessive. Così non dispiace affatto quello sguardo – e orecchio – da antropologo con cui l’autore indugia nel repertorio multilingue di canti popolari che, accanto alle lettere e ai taccuini, la resiliente umanità dei coscritti sembra aver eletto a estremo rifugio.

Se i limpidi episodi di fair play tra gli assi dell’aviazione introducono una nota cavalleresca nello scontro con un avversario che finalmente ritrova il suo volto, il rispetto per il valore del nemico è una costante; l’empatia dichiarata fu spesso motivo di allarme e imbarazzo fra gli alti comandi. Altrimenti non si spiegherebbe come, alle ore 11 dell’11esimo giorno dell’11esimo mese del ‘18, quella latente disponibilità a fraternizzare, fiume carsico già affiorato qua e là in innumerevoli spontanee episodiche sospensioni delle ostilità, possa trasformare gli irriducibili avversari di un minuto prima, consumati amministratori del quotidiano commercio di piombo, in un festoso convegno di coetanei impazienti di scambiarsi trofei e souvenir. Episodi simili tradiscono tutta l’artificiosità della categoria di nemico: come odiare un nemico che, di contrabbando, rifornisce tabacco e salsicce? Quanto all’alcool, a quello provvedeva la Patria… e lo stato maggiore era abbastanza avveduto da chiudere entrambi gli occhi sul tasso alcolico del “sangue del leone”, posto che senza solenni ubriacature non si apparecchia il campo degli eroi. E se poi non bastava, a intimare l’assalto c’era, puntata nella schiena, la canna dell’arma del carabiniere.

Inevitabilmente, all’ombra dell’epica, fiorisce una sapida parodia della guerra: talvolta, rinnegato il miraggio della vittoria, prevale una surreale, incruenta competizione con l’avversario per accaparrarsi il diritto di cedere le armi per primi. Di fronte alla conclamata impossibilità di una supremazia, ci si disputa almeno il privilegio della resa, forse la più auspicabile tra le vie d’uscita dall’incubo. Nella loro ingenuità, i trucchi degli autolesionisti potrebbero persino strapparci un sorriso.

Se un po’ ovunque l’amministrazione marziale della giustizia tende a mitigarsi nel corso del conflitto, certo il triste primato italiano nell’applicazione di decimazioni e misure punitive non ci fa onore, né il sistematico scarico della responsabilità sulla codardia della truppa, alibi prediletto di sclerotiche gerarchie impuntate su strategie palesemente inefficaci, fondate sullo spreco di risorse umane e materiali; ci indignano le disumane condizioni di detenzione dei prigionieri italiani, soprattutto dopo l’onta di Caporetto, praticamente rinnegati dalle stesse istituzioni di cui indossavano l’uniforme, quasi che allo status di prigioniero si accompagnasse un marchio d’infamia. Seppure ingiustificata, la diffidenza austriaca scontata dai coscritti di origine italiana affluiti sul fronte galiziano già a partire dal ’14 trova più persuasive attenuanti. Ciò che si tende a dimenticare è che in questa carneficina la morte sovente ti prende alle spalle: il fuoco nemico è solo una fra le tante variabili, accanto al fattore climatico e alla malnutrizione, a malattie ed epidemie: quelle sì rompono tutte le linee, per dilagare nelle retrovie, fra i civili.

Chi da quella guerra fece ritorno era segnato nel corpo o nello spirito al punto di risultare irriconoscibile persino ai congiunti, e ancor più restio a condividere il peso soverchio di uno zaino stracolmo di ricordi, se non forse con gli stessi camerati. Rumiz ha perfettamente compreso come l’unico modo per fare breccia nella ruvida reticenza dei reduci sia assimilarsi a uno di loro: solo ciò gli conferisce il diritto di farsi, anziché dissettore, aruspice del loro silenzio. Sull’intera operazione, infatti, impende un programmatico gesto inaugurale: non può sfuggire come la scelta di indossare letteralmente i panni dell’avo, la “berretta con l’ongia” del nonno reclutato nell’imperial-regio esercito, già ci costringa a uno scavalcamento di campo, a uno spaesante quanto salubre slittamento di prospettiva.

Se quello era l’incipit, il congedo suona come un ammonimento: è l’illusione di aver incatenato una volta per tutte gli istinti bestiali che armarono la mano di Caino ad esporci al loro subdolo colpo di coda. Abituate a misurare sui pollici di uno schermo la siderale distanza dai puteolenti orrori che vi si avvicendano in un infernale carosello, le nostre difese immunitarie abbassano la guardia. Ma una civiltà che abbia smarrito il gusto della pace, inabile cioè a soppesarne il valore, è già pronta a gettarsi nuovamente a capofitto tra le fauci della guerra. Il miglior antidoto al sonnambulismo che ci affligge è proprio quel cosmopolitismo imbevuto di pietas che si respira lungo tutta l’inchiesta, quel fiuto che ovunque –ieri come oggi – aiuta il nostro “sherpa” a rinvenire dolenti brandelli di umanità in un mondo di disciplinata barbarie.